La vendita da parte italiana di due fregate all’Egitto (anticipo di un più corposo programma che potrebbe arrivare a oltre dieci miliardi) ha sollevato l’indignazione della famiglia Regeni e di molti semplici cittadini, oltre che di qualche intellettuale e di qualche politico.
La questione si presta ad almeno tre ordini di considerazioni. In ordine crescente d’importanza.

La prima riguarda, al solito, l’assenza di una qualsivoglia linea comune europea. Non a caso, una delle risibili motivazioni addotte è quella che la Francia era pronta a sostituirci nel caso non avessimo concluso noi l’affare. Nulla di nuovo. Il Mediterraneo è un’area di competizione fra alcuni Paesi europei. Il risultato – come già si è scritto qui – lo si sta vedendo in questi giorni in Libia: dove le carte ora le daranno i turchi e i russi.

Esiste poi un profilo prettamente economico (quello che ha contato davvero) che è stato artatamente (e molto ipocritamente) collegato con la situazione politica dell’area. L’accordo commerciale è stato giustificato come un utile strumento non solo per sostenere finanziariamente il nostro rilevante apparato industrial-militare ma anche per stabilire una relazione diplomatica ancora più amichevole col Cairo utile ai fini dell’indagine sull’omicidio di Giulio Regeni. Nonché come un atto di cooperazione con un governo importante ai fini della stabilizzazione del Mediterraneo orientale, ove le ambizioni della Turchia, e della Russia, sono ormai evidenti. E di aiuto ad un Paese attivo nel contrasto al terrorismo jihadista, terreno sul quale il generale al-Sisi è coinvolto parallelamente al suo impegno contro i Fratelli Musulmani, considerati in patria alla stregua di terroristi della peggior specie.

Se però si segue questo ragionamento occorre allora aggiungere qualcosa di più: l’Egitto non gode di buona salute finanziaria. Facile quindi immaginare chi sta finanziando il riarmo del Paese delle Piramidi: i sunniti degli Emirati e, soprattutto, l’Arabia Saudita. E il motivo è altrettanto semplice da comprendere: garantirsi un alleato fedele nella regione. Un alleato che a sua volta mantiene stretti rapporti con la Russia, interessata ad una propria rafforzata presenza mediterranea come ormai ben sappiamo. E che in Libia sostiene le pretese, oggi ridimensionate dall’azione turca a difesa del legittimo governo di Tripoli, del ribelle generale Haftar.

Ora, un conto è limitarsi al business. Purché lo si riconosca con onestà intellettuale. Un altro è avventurarsi sul terreno accidentato della politica mediterranea: perché in questo caso non si può non comprendere cosa significhi armare l’Egitto, quali siano i suoi legami, quali i suoi avversari. E le conseguenze che possono derivarne, a cominciare dal futuro della nostra presenza in Libia.

C’è, infine, la terza considerazione. Lasciata ai margini, ed invece è la più importante. Se vogliamo che la Politica torni ad appassionare le persone, e soprattutto i più giovani, non possiamo dimenticarci che essa, per entusiasmare, necessita di un profilo etico, ideale. Ma allora, come si fa a rinvenirlo nella vendita di armi a un dittatore che tiene in carcere lo studente Patrick Zaki senza nessun reale motivo e che non ha offerto alcuna collaborazione reale nell’indagine, che porta diritto ai suoi servizi segreti, per scoprire prima, punire poi i responsabili delle torture e dell’omicidio efferato di un giovane studioso italiano?