Il business dell’uranio africano. Sull’Osservatore Romano l’analisi di Padre Albanese.

 

Attualmente lAfrica riveste un ruolo non irrilevante nelle attività estrattive di uranio a livello planetario.

Secondo i dati pubblicati nel settembre scorso dalla World Nuclear Association e riferiti al 2020, sono 3 i Paesi africani inclusi nella classifica dei primi venti produttori mondiali: Namibia al terzo posto con 5.413 tonnellate, il Niger che si attesta al sesto posto con 2.991 tonnellate, segue poi in undicesima posizione il Sud Africa con 250 tonnellate.

L’articolo è stato pubblicato sull’Osservatore Romano del 7 gennaio.

 

Giulio Albanese

 

Il bombardamento nucleare di Hiroshima e quello successivo di Nagasaki, avvenuti nell’agosto del 1945, sono ricordati come gli eventi bellici più catastrofici e spaventosi della storia umana. Si trattò di due devastazioni che non ebbero nulla a che fare con le armi tradizionali e che causarono complessivamente oltre 200.000 morti e 150.000 feriti.

 

Ebbene, uno dei due ordigni atomici (denominato “Little Boy”, sganciato su Hiroshima) venne realizzato utilizzando l’uranio estratto nella miniera congolese di Shinkolobwe, nella regione del Katanga.

 

Da rilevare che dalla fine della seconda guerra mondiale l’utilizzo dell’uranio è stato direttamente connesso allo sviluppo dei processi di fissazione nucleare e al loro uso a fini bellici (bombe atomiche, propulsione navale) e civili (centrali nucleari). Sebbene l’uranio sia stato soggetto a straordinarie oscillazioni di prezzo sui mercati mondiali, legate all’altalenante destino dell’energia nucleare, esso continua a suscitare l’interesse di molti Paesi. Nei primi anni Duemila il costo di questo metallo pesante salì alle stelle a seguito di un’ondata di fiducia internazionale verso il nucleare, mentre si è poi fortemente contratto dopo il disastro di Fukushima del 2011 in Giappone.

 

Attualmente l’Africa riveste un ruolo non irrilevante nelle attività estrattive di uranio a livello planetario. Secondo i dati pubblicati nel settembre scorso dalla World Nuclear Association e riferiti al 2020, sono 3 i Paesi africani inclusi nella classifica dei primi venti produttori mondiali: Namibia al terzo posto con 5.413 tonnellate, il Niger che si attesta al sesto posto con 2.991 tonnellate, segue poi in undicesima posizione il Sud Africa con 250 tonnellate.

 

Ma andiamo per ordine. La Namibia, che attualmente rappresenta il 7 per cento della produzione mondiale, dispone di due grandi miniere attualmente operative — Rössin e Husab — gestite dalla China National Uranium Corp (Cnuc), una sussidiaria della China National Nuclear Corp (Cnnc), e dal China General Nuclear Power Group (Cgnpg). Il Niger, invece, vanta una lunga tradizione estrattiva e per anni è stato il leader africano nella produzione di uranio, ma dal 2016 è stato superato dalla Namibia.

 

In questo Paese saheliano la multinazionale francese Orano (ex Areva) è azionista di maggioranza di Somaïr (Societé minière de l’Aïr con il 66 per cento delle quote) e Cominak (Compagnie Minière d’Akouta con il 59 per cento), gestendo rispettivamente le miniere di Arlit e Akouta, cittadine della regione nordorientale di Agadez, a cui è stata attribuita fino al 2020 tutta la produzione nigerina. Sebbene in questo Paese sia avvenuta, nel marzo scorso, la chiusura per esaurimento della miniera di Akouta, la Orano si è impegnata presso il governo di Niamey a sviluppare un nuovo sito, quello di Imouraren.

 

Per quanto concerne il Sud Africa, invece, gran parte del terreno produttivo e potenziale per l’estrazione di uranio, come sottoprodotto dell’oro, è localizzato nel bacino del Witwatersrand, un’area di circa 330 chilometri x 150 a sudovest di Johannesburg. Sebbene il tasso di produttività nel Paese Arcobaleno sia stato basso, anche a seguito delle limitazioni imposte dalla pandemia, esso dispone di una riserva stimata attorno alle 113.000 tonnellate, pari al 5 per cento del totale a livello planetario.

 

Ma l’uranio è presente anche in molti altri Paesi africani. In alcuni casi, come ad esempio in Malawi, in passato vi sono state attività estrattive, attualmente in fase di ripresa, mentre in altri le ricerche e gli studi dei terreni sono ancora in corso e stanno calamitando gli interessi di investitori stranieri.

 

Per quanto alcuni Paesi industrializzati come il Giappone e la Germania abbiano avviato una politica di smantellamento delle loro centrali nucleari per motivi di sicurezza e ambientali, altri, come India, Cina, Russia e Arabia Saudita, hanno aperto al contrario nuovi reattori nucleari per soddisfare le loro esigenze energetiche. Emblematico è l’impegno assunto dal colosso nucleare pubblico russo Rosatom che ha deciso di portare avanti il progetto di sfruttamento dell’uranio nella zona di Mkuju River, situata nel settore meridionale della Tanzania, non lontano dal confine con la provincia mozambicana di Cabo Delgado. In effetti, già nel decennio scorso era stata avviata una proficua collaborazione tra il governo di Mosca e quello tanzaniano attraverso la società Uranium One, divisione mineraria internazionale della Rosatom.

 

Tra gli Stati africani che aspirano a sfruttare le proprie risorse di uranio c’è anche il Botswana nella macro regione dell’Africa australe. Qui va segnalata in particolare la presenza dell’australiana A-Cap Energy alla quale nel 2016 sono stati concessi per 22 anni i diritti minerari del sito di Letlhakane nel nordest del Paese. Da rilevare, comunque, che la maggioranza del pacchetto azionario della A-Cap è cinese con le società Jiangsu Shengan Resources Group Co Ltd che detiene il 41,04 per cento e l’Ansheng Investment Co Ltd con il 19,78 per cento.

 

Dal punto di vista estrattivo, potrebbe essere imminente una ripresa della produzione nella Repubblica Centrafricana e più precisamente nel sito di Bakouma. Prima del 2012, le attività estrattive erano condotte dalla multinazionale francese Areva, poi vennero sospese a seguito del deterioramento della situazione generale del Paese e di altre controversie. Areva, che oggi si chiama Orano, sebbene possieda ancora la sua controllata centroafricana, non è intenzionata a riprendere le attività estrattive e il sito è sul mercato al miglior offerente. Non è da escludere che possano entrare in gioco altri player come il colosso nucleare russo Rosatom.

 

Non sono pochi i Paesi africani che dispongono di giacimenti o che in passato erano produttori e stanno cercando di riavviare le loro miniere di uranio inattive: dall’Algeria alla Repubblica Democratica del Congo; dal Gabon alla Guinea Equatoriale; dalla Nigeria alla Guinea; dal Mali alla Mauritania. A dispetto di una produzione continentale attuale del 15 per cento, in Africa sarebbero localizzate oltre il 20-23 per cento delle riserve di uranio riconosciute del pianeta. Il problema principale è legato all’impatto delle miniere di uranio sull’ambiente e sulle popolazioni autoctone che vengono coinvolte nelle attività estrattive. Si tratta di una manodopera a basso costo che raramente ha consapevolezza delle reali implicazioni del business minerario sulla qualità della vita.

 

Le miniere di uranio richiedono grandi sbancamenti di terreno e l’impatto sull’ecosistema e in particolare sulle acque sotterranee è spesso devastante. Nonostante le denunce di alcune organizzazioni internazionali e della società civile, l’estrazione e la ricerca mineraria continuano speditamente, senza che le enormi ricchezze del sottosuolo si traducano in reali benefici per le popolazioni locali.

 

Purtroppo, come peraltro avviene per molte altre materie prime, fonti energetiche in primis, a beneficiare dei vantaggi economici sono i Paesi ad alto reddito, mentre a pagare le conseguenze (ambientali, sanitarie e sociali) risultano essere i paesi a basso reddito. Sta di fatto che mentre in Europa si dibatte sul caro bollette, oltre la metà della popolazione subsahariana — circa 600 milioni di persone — vive nell’oscurità senza avere accesso all’energia elettrica.

 

A riprova che il mercato energetico ha bisogno di una radicale conversione a qualsiasi latitudine, nel pieno rispetto dell’uomo e dell’ambiente. Prima che sia troppo tardi.