IL CALEIDOSCOPIO DEI PARTITI E LE NUOVE FRONTIERE DEL POPOLARISMO.

Si affaccia la sfida di un nuovo protagonismo dell’area del popolarismo. Insomma un partito di “nuovo conio”, che ci ricordi la vecchia matrice aggregativa delle forze politiche della prima Repubblica.

Si affaccia la sfida di un nuovo protagonismo dellarea del popolarismo. Insomma un partito di nuovo conio”, che ci ricordi la vecchia matrice aggregativa delle forze politiche della prima Repubblica.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Luigi Rapisarda

Prendo spunto dal dibattito in corso, nell’area del cattolicesimo democratico e sociale, per affacciare una mia tesi sulle possibili nuove frontiere politiche del popolarismo.

Se è vero, come dice su Il domani d’Italia, Giorgio Merlo – attento osservatore delle vicende identitarie che hanno attraversato i cattolici democratici e i popolari in questi trent’anni – che “..Sale dal basso una domanda di “ricomposizione” di tutta la vasta e plurale area dei cattolici popolari dopo la sostanziale scomparsa pubblica in questi ultimi anni”, è indubbiamente da ritenersi, non solo una percezione, ma un concreto segnale che tutto quel magma che da tempo ribolle sotto un sistema politico che si è via via depauperato, lasciando alla finestra,in quasi sei lustri, circa il 40 per cento di tutto l’elettorato, sta cercando un reale approdo. Ed è parte di quell’immensa galassia democristiana che da anni fluttua alla ricerca di lidi provvisori dove rigenerarsi, con esiti spesso assai deludenti, in attesa, per buona parte di essi, di una comune aggregazione identitaria.

La ragione, allo stato degli atti, può intravedersi in tanti fattori. Di certo tra i principali v’è l’avvento del governo Meloni e lo sfaldamento del Pd. Non c’è commentatore politico, scorrendo le pagine della nostra stampa, che non abbia messo in rilievo il salto epocale di un elettorato che per la prima volta ha dato ampia fiducia ad un partito, nonostante non abbia finora tagliato fino in fondo le radici del proprio ingombrante passato, e al contempo ha dato vita al ritorno della politica, dopo un decennio di governi nati da ibride alchimie. Una scelta – fatta sulla disillusione di tante promesse non mantenute, o dall’ eccessive faziosità nelle scelte generali da parte dei precedenti esecutivi, non da ultimo il clima rissoso del tratto finale del governo Draghi – che ha scosso profondamente equilibri da tempo consolidati sui valori precipui dell’antifascismo e della Resistenza come azione fondativa della nostra Repubblica. Il tutto è talmente inedito che sta inaspettatamente imprimendo una generale rimodulazione del modello-partito che da trent’anni, ossia da quando con tangentopoli si era finito per demolire il vecchio sistema, la fa da padrone con partiti azienda, personali o di plastica, dove a perdere è stata soprattutto la collegialità delle scelte orientative e programmatiche e la formazione di una seria classe politica.

A questo sembra non essere estraneo neanche il partito di Giorgia Meloni che si è subito resa conto, nell’impatto con l’alta funzione istituzionale, della inadeguatezza del progetto di destra retrograda che ha già messo a nudo tutti i nodi irrisolti di una miope visione sovranista. Mentre trova sempre meno veli la chiara la percezione che, mentre gioca la partita in campo, non riesca a divincolarsi dalla fascinazione del modello Draghi.

Un quadro che prima o poi la costringerà ad imporre un revisionismo dottrinale alla sua forza politica per liberarsi definitivamente da tutti quei residui cascami ideologici del “ventennio” e volgere verso una forza conservatrice moderna e flessibile a cambiamenti epocali. E qui oltre all’importante ruolo che ne gioca la stampa, con la sua critica attenta, non da meno dovrà essere essenziale, nel solco coerente dei valori dell’Umanesimo integrale, un’azione politica da parte delle forze del cattolicesimo democratico e popolare, in grado di fare maturare una diffuso sentimento che metta sempre al centro dell’azione politica la persona, per assicurare a tutti un progetto di vita quantomeno dignitoso.

Netta invece appare, in tutta l’attuale area del popolarismo, la chiara consapevolezza di non voler ripetere quelle, improvvide, esperienze che di volta in volta han finito per farli ritrovare ancelle o caudatari soprattutto di un centrosinistra che ha rinnegato tutti i valori per cui è nato.  Così Lucio D’Ubaldo non ha tutti i torti quando sostiene, nel giornale che dirige, Il Domani dItalia, che:” Fare politica esige un salto – dalle emozioni ai ragionamenti, dalle speranze ai programmi, dagli universalismi teorici alle scelte di campo – per dare voce a interessi legittimi e incarnare un progetto sostenibile.”. E anche nel diverso modo di rispondere alle sfide del tempo, ci si dovrà caratterizzare nella consapevolezza di un elettorato che nella sua inarrestabile fluidità non è più aduso a deleghe in bianco, fluttuando in questi anni, ora verso il Pd di Renzi, ora verso i 5 Stelle, ora verso la Lega di Salvini ora verso la Meloni;  e il trend non sembra essersi esaurito. Segno evidente del crescente disagio di buona parte di quella classe media, ma anche della classe operaia, che in questi anni ha subito fortemente precarizzata e depauperata.

Di certo, in questo difficile percorso di rinnovamento del sistema, i tortuosi tatticismi dei centristi improvvisati (Calenda, Renzi,ecc.) non aiutano a far sì che ci si incardini su modelli postmoderni, ma capaci di recuperare il vero spirito della collegialità, nella multiformità di scelte promotrici di progresso per tutti. Al contrario non poco interesse sta suscitando, nel quadro delle grandi matrici europee, l’intensificarsi del confronto tra i Conservatori, di cui la Meloni è presidente, e il Ppe. 

Intanto non è stato esaltante, neanche per se stessa ed i suoi elettori, l’abbrivio che la premier ha dato a questa prima fase, caratterizzato, nell’intento di dare una robusta risposta all’esponenziale aumento delle energie e al pesante drenaggio fiscale sui salari, da un eccessivo sbilanciamento. Scelta che, seppur la stessa Meloni ha precisato: “meglio di così non si poteva fare” per le poche risorse disponibili e la preminenza data al sostegno per le spese energetiche divenute assai gravose per famiglie e imprese, lascia senza neanche un principio di risposta tutta la pressante questione sociale che da tempo si ingigantisce a ritmi vorticosi.

Così, non appare tenero il giudizio di Elisabetta  Campus, che traiamo dalle pagine de Il domani d’Italia del 30.12.2022: “..Resta fuori il lavoro e la disoccupazione, il problema dei giovani che non hanno speranze per il loro futuro, le donne che si faranno ancora carico del welfare familiare, le politiche di aiuto alle famiglie, il terzo settore, il contrasto alla povertà; il sistema welfare, nel suo complesso, che ancora una volta è lasciato alla sopportazione, allo spirito di sacrificio e alla solidarietà degli italiani”. C’è poi tutto un capitolo che si sta aprendo, nel cantiere delle riforme anticipate da Giorgia Meloni, che non nasconde una nuova ed inedita prospettiva di sviluppo identitario del suo partito e probabilmente, se saprà essere collante credibile, di tutta la sua coalizione.

Non sfugge infatti a nessuno che il cantiere delle riforme della destra, ha subito appunto l’irresistibile fascinazione del modello Draghi, almeno nei termini di ricerca di un nuovo appeal comunicativo e di una più accentuata inclinazione verso la politica del fare piuttosto che annunci e promesse, che poi lasciano il tempo che trovano. Uno scenario “post-populista”, che fa prefigurare al prof. Giovanni Orsina, la concreta ipotesi per lo schieramento alternativo alla destra di una possibile “conciliazione fra progetto globalista – inteso non come globalizzazione o rivoluzioni tecnologiche bensì come ideologia dei miliardari globali (allude al deep state?) – e ceti, definiti “periferici”, imprevedibilmente spodestati da quella centralità che nella generale tutela, la Repubblica, nata dalla Liberazione dal nazi-fascismo, aveva affermato.

Anche se al momento la rovente competizione che sta caratterizzando il rapporto 5 Stelle-Pd non sembra andare nella direzione immaginata dal prof. Orsina, quantomeno nell’area della sinistra. Ma la dinamica appare assai più preoccupante se calata in uno modello di tipo presidenzialista, in pectore alla Meloni da sempre, che ha fatto dire al costituzionalista prof. Gaetano Azzariti: “Evitiamo giochi da apprendisti stregoni, col presidenzialismo si rischia l’autocrazia”, ammonendo che “il sistema funziona solo con grandi contrappesi di potere. Ispirarsi al modello francese? Inseguendo Parigi potremmo ritrovarci a Mosca”.

Ma lo scenario sarebbe ancora più incandescente se solo andasse in porto la cosiddetta “Autonomia differenziata” del ministro Calderoli. Sarebbe il preludio di una balcanizzazione dell’Italia, con l’accentuazione di ulteriori divari dei territori. Interessante sul punto quanto messo in rilievo da Giuseppe Davicino, sempre su Il Domani dItalia, che riprendendo un precedente commento di Guido Bodrato, mette in guardia dagli effetti che un tale scenario pone: da una progressiva riduzione dell’esercizio del pluralismo delle opinioni e dei punti di vista nel discorso pubblico, ad una rappresentanza parlamentare pressoché monopolizzata da pezzi di establishment a scapito di una necessaria e insostituibile rappresentanza popolare. Chiedendosi inoltre se, in un così prorompente quadro istituzionale “nel quale sembra emergere un modello di governo basato su inedite forme di oligarchia, non ci si dovrà attendere una accentuazione ulteriore piuttosto che una riduzione della separazione fra le forze di centro sinistra e gli orientamenti elettorali dei ceti popolari. Il discorso riguarda certo il Pd e la sinistra, ma non solo, vale anche per il centro. E più di tutti vale per i Cinque Stelle”.

Mentre pesano ancora i residui tattici di un certo modo di acquisire consenso per poi fare il contrario di quanto promesso: il riferimento è a tutta la speculazione che personalmente la Meloni ha fatto sul mantenimento delle accise (mentre lei non ne ha prorogato la riduzione) sui sostegni ai redditi, che liquidava come poca cosa, (non diversamente più essere definito il suo provvedimento sul punto, tant’è che persino gli imprenditori, Marcegaglia, reclamano interventi più corposi) sull’Europa e tanto altro, salvo poi a riconvertirsi in fretta sulla linea del precedente governo per non bruciarsi una iniziale credibilità con i tanti interlocutori, messi in guardia da una campagna elettorale che sembrava non lasciasse spazio a compromessi e moderazione. Anomalia che ben mette in evidenza, sul Corriere della sera del 26 dicembre scorso, Dario Di Vico, secondo il quale: “non è maturata ancora una capacità di intermediare le nuove domande della società post-Covid, di superare la stagione populista. Lo vediamo sia nelle acrobazie delle forze politiche che hanno vinto le elezioni e che pensano di giocare a specchio con il consenso sociale agitando temi giudicati astrattamente idonei, lo vediamo ancor di più nei partiti usciti sconfitti che non sanno da che parte guardare per rimettersi in cammino. È sicuramente vero che il centro-destra conserva una rendita elettorale dovuta alla precedente ondata populista caratterizzata dalla rivolta del piccolo contro il grande, del presente contro il futuro, del vissuto contro il pensato (citazione da Giovanni Orsina) ma siamo sicuri che anche queste differenze, queste liste non debbano essere aggiornate alla luce dei cambiamenti che attraversano quotidianamente la società e scardinano alcune convenzioni?”.

In questo quadro così dinamico e dagli esiti non scontati si prefigura uno spazio di interlocuzione che il mondo cattolico e popolare non può lasciarsi sfuggire non facendo mancare tutto il proprio apporto dialettico nel confronto di prospettive di cambiamenti ordinamentali e degli assi istituzionali compatibili con quei valori e principi che, affermati primariamente dalla Costituzione, sono anche il punto identitario del popolarismo: in primis, lo spirito di servizio e il bene comune che abbia al centro, ogni persona.Un dialogo che ridia voce e rappresentanza ad un’area sociale e culturale molto più ampia di quella che già si riconosce nel patrimonio storico del cattolicesimo popolare e sociale del nostro paese. Un’area che si riappropri della naturale connotazione centrista, moderata, democratica, ambientalista e innovatrice, in continuità con tutte quelle radici ideali, valori e principi riconducibili a quel filone storico. Un processo riaggregante che si incardini nella comune tutela e salvaguardia dei valori primari: dal rispetto, in ogni sua fase, della vita umana, alla stabilità della famiglia basata sul matrimonio di uomo e donna, e alla libertà di educazione, al riparo da qualsivoglia cedimento, nel solco di una condivisa visione di Umanesimo integrale, come delineato da Papa Francesco.

Uno spazio è il ruolo di non poco conto che, riempiendo un vuoto, può giocare in termini di sfida un nuovo protagonismo dell’area del popolarismo. Insomma un partito di “nuovo conio”, che ci ricordi la vecchia matrice aggregativa delle forze politiche della prima Repubblica. Non dominato all’interno da correnti di potere o gruppi clientelari, ciascuno con un proprio capo, ma protesi nel confronto, talvolta anche assai aspro, tra le diverse correnti di pensiero, non per mero lobbismo, ma rappresentativi di spicchi di società e di multiformi interessi espressione del paese. Serve insomma una fucina di idee che marchi le distanze dagli attuali modelli dove campeggia un leaderismo sfrenato e non aduso al confronto ma pura espressione di una personalizzazione totalizzante della lotta politica basata su una preconcetta egemonia della visione personale

Una rimodulazione non più procrastinabile resa inoltre urgente dal groviglio, oggi sempre più incandescente, delle profonde questioni sociali e dalle sfide epocali che abbiamo di fronte. Mentre appare assai cogente dare risposte coerenti e sostenibili ad una convivenza sempre più multiculturale, cui non giovano le occasionali e demagogiche tendenze al rafforzamento di politiche securitarie a fronte di un indebolimento dell’idea di progresso condiviso, foriere solamente di un preoccupante aumento delle diseguaglianze e di una più accentuata precarizzazione del lavoro. Un quadro sociale ed economico che mette a nudo, ancora una volta, l’inadeguatezza di politiche arroccate su maggioranze risicate, oggi sempre più affette dal rischio di estremizzazione. È questa la consapevolezza che, come una leva, sta connotando il profondo tormento di tutta l’area dei cattolici e del popolarismo, per guardare oltre, nell’interesse del paese. Cosi, in questo scenario dai tratti vichiani, che sembra preludere ad un nuovo ciclo storico, non sono pochi nei loro ragionamenti a prendere coralmente atto che la “pre-politica e la presenza testimoniale ha fatto il suo tempo”: riflessione che, tra le righe non sembra lasciar fuori da questo diffuso pessimismo – nonostante il lusinghiero successo in Sicilia, che però si deve tutto all’azione politica di Cuffaro – l’attuale tentativo di riedizione della Dc, che sconta, al contempo, una pressoché inesistente visibilità e l’inadeguatezza di una nuova classe dirigente.

Una prospettiva che fa dire a Giuseppe De Mita, ancora ne Il Domani dItalia del 5 gennaio scorso, che la “causa politica” di una mobilitazione parrebbe allora risiedere in una capacità di visione culturale su come possa essere ricomposto un equilibrio tra le multiformi istanze di libertà e le pressanti esigenze di giustizia sociale, ricostruendo quello che Moro individuava come il terzo pilastro della nostra democrazia, oltre i due appena segnalati, quello del volto largamente umano”. Connotazioni che appaiono di certo come unica via possibile per costruire una forza non polarizzata capace di riposizionare il baricentro politico su un asse che fa ritrovare il suo perno su quel prezioso patrimonio di valori e di metodi che furono il motore di crescita dell’Italia del secondo dopoguerra.