Non c’è niente di sbagliato nel calcio che cerca di ricominciare. Perché non dovrebbe farlo? A essere sbagliato non è il campionato, sono le condizioni in cui lo si mette. Abbiamo capito cosa si chiede – in concreto – ai giocatori, alle squadre, ai dirigenti, allo staff medico e atletico? Di rimanere reclusi per più di due mesi, da giugno alla fine di agosto, se si giocheranno anche le Coppe europee. Di lasciare i ritiri solo per entrare negli stadi e gli stadi per entrare nei ritiri, sempre gli stessi. Senza vedere nessun familiare né alcun tipo di “congiunto”, rimanendo lontani l’uno dall’altro anche nella stessa squadra, anche quando si mangia, si dorme o si cerca di distrarsi. Si chiede di giocare senza pubblico, di finire la partita, andare ad allenarsi e poi in ritiro.

Anche se non ci fosse un’esposizione diretta al virus, che invece naturalmente c’è, sarebbe una cosa poco dignitosa, abbastanza barbara, quasi medioevale. Il Medioevo era già il tempo degli antichi monasteri e delle biblioteche, della trasmissione del sapere. L’epoca dei primi Comuni, della Magna Charta Libertatum (1215) cioè di una prima idea di Stato. Un periodo storico importante, spesso studiato nelle scuole in modo abbastanza frettoloso e superficiale. Ma questa è un’altra storia.

Qui invece si tratta di individui che restano rinchiusi per mesi e ne escono due-tre volte alla settimana per andare a divertire (a porte chiuse) un pubblico esclusivamente televisivo. Giocatori come clown tristi, giullari involontari soltanto per una questione di soldi (che non è scontato i broadcaster alla fine pagheranno davvero) pretesi da una decina di presidenti capricciosi, per fortuna non tutti. Esiste un problema? Cerchiamo di risolverlo. Troviamo un’altra intesa, se serve un compromesso. Molti bilanci delle società sportive sono già stati aggiustati dagli stipendi tagliati. Ma rinchiudere circa mille persone, tenerle fuori dal mondo solo perché “lo spettacolo deve continuare” è un pessimo esempio. Non ricordo nessuno che abbia mai dovuto rinchiudere i propri dipendenti, nemmeno nelle più dure rivoluzioni industriali. Cosa c’entra con lo sport? Diventa semmai una questione di civiltà, di dignità, di rispetto per sé stessi e per i propri dipendenti e collaboratori. Chi si può divertire a vedere un calcio “costretto”, spezzettato, affaticato da quello stesso obbligo di esistere contro natura? Capisco la necessità di ricominciare, anche rischiando, in minore sicurezza, ma con regole di dignità comuni. Possibile si sia tutti d’accordo nel tenere recluse centinaia di persone per due mesi solo per far “fare cassa” a qualcuno? 

Tutto il Paese sta mostrato la sua stanchezza, la sua perdita di compattezza, dopo due mesi di lockdown. La vicenda di Silvia Romano è, in questo senso, emblematica. Quando sono stati liberati – a metà marzo – Luca Tacchetto e la sua amica canadese, una volta rientrati in Italia sono stati ignorati dalla pubblica opinione. In piena epidemia, con più di mille morti al giorno per Coronavirus, il Paese aveva altre priorità. 

Adesso dovremmo divertirci senza vergogna solo perché qualcuno deve recuperare dei soldi che ha speso da solo? Davvero bastano poche settimane di libertà dal virus per portarci a un’involuzione morale così marcata?