Enrico Letta, in vista ormai della battaglia per il Campidoglio, ha pensato bene di rilanciare le primarie. Rotti gli indugi, la scelta del candidato sindaco chiama in causa gli aficionados del Pd e dei suoi alleati potenziali. Il condizionale è d’obbligo, essendo questa una soluzione che i Dem auspicano volentieri, anche in ossequio alle norme statutarie, ma che non appare facile da realizzare. Vige anzitutto l’obiezione su come e quando organizzarle, queste primarie: farle in fretta non è consigliabile, vista la perdurante gravità della situazione sanitaria; né lo è l’ipotesi di farle in un lasso di tempo più ampio, con il rischio di andare troppo a ridosso del momento pre-elettorale. In aggiunta, poi, la Raggi non ha modificato minimamente la sua posizione e ha persino ricevuto, nel giro di poche ore, l’ennesimo incoraggiamento di Grillo a proseguire nel suo intento battagliero: vuole ricandidarsi a tutti i costi. Infine, se ce n’era bisogno, anche Calenda ha fatto capire come la proposta di Letta non incontri il suo entusiasmo, se non altro per le suddette difficoltà legate alle restrizioni anti-covid.

E non basta. Mentre avveduti opinionisti fanno presente che Roma avrebbe bisogno di uno sforzo unitario eccezionale, l’atteggiamento delle forze politiche sconta una conflittualità di segno tradizionale. In particolare Paolo Conti, in un editoriale del 21 marzo sulla pagina romana del Corriere della Sera, ricordando il “volémose bene” del primo sindaco dopo la Liberazione, il Principe Filippo Andrea VI Doria Pamphilj, ha preso spunto dal passato per ammonire, in maniera certamente garbata, le contrapposte formazioni: “Il mondo politico e amministrativo – ha precisato – forse non percepisce questo bisogno di sentimenti condivisi (…) In tanti hanno proposto il parallelo tra Dopoguerra e dopo Covid. Ritrovare l’orgoglio e la forza di essere romani significa anche volersi bene. Dunque, cari romani, volémose bene”.

Questa, dunque, la sollecitazione. Ora, nel riconfezionare l’immutabilità dei due blocchi, quello di centrosinistra e quello di centrodestra, i partiti dimostrano di preferire una vita all’ombra degli idola tribus del passato. Questa torsione conservatrice è un ulteriore segno di debolezza dell’attuale classe politica. Nel Pd soltanto Patrizia Prestipino, prima dell’avvento di Letta alla segreteria, ha buttato il sasso nello stagno provando in qualche modo a tratteggiare uno scenario “alla Draghi”. Non ha trovato alleati. Ciò nondimeno, se la Città Eterna ha bisogno di una sferzata di fraterna operosità, ne farebbe positivamente esperienza, in effetti, ove si manifestasse una larga convergenza proprio alla stregua di quella realizzata attorno al nuovo Governo. Palazzo Chigi e Palazzo Senatorio potrebbero condividere il medesimo spettacolo di unità.

Invece non è così. Ci si rifugia nel programma, come se cento idee giuste possano supplire alla mancanza di un’idea direttiva – e perciò, in ultimo, anche giusta. Ci si adagia su ricette doviziose, scrivendo libri al tempo stesso rutilanti e vacui – l’ultimo quello di Francesco Delzio (Liberare Roma) – senza darsi carico di un programma capace di autentica forza aggregativa, quale compete alla politica. Ci si limita, in fin dei conti, a spolverare le armi della propaganda nella convinzione che i romani ne vivano il fascino con ardore infantile, perché in campagna elettorale a farla da padrona sull’anima senziente dei votanti sarebbe pur sempre il clangore delle spingarde virtuali, la mimesi della guerra per insulti, lo sciupio di annunci fantasiosi. Chissà se tutto questo è vero.

In definitiva Letta vuole le primarie, ma non chiarisce quale debba essere il loro tracciato. In parole povere, si pensa di raccogliere la domanda di unità e coesione, per il bene di Roma? Pare di no. E tuttavia, se venisse alla luce una simile suggestione, servirebbe evidentemente una dose molto alta di realismo, immaginando poi di gestire le conseguenze con finezza. È chiaro che la “formula Draghi” non può significare una replica pedissequa in ambito locale; semmai, nel caso di candidatura idonea, può evocare una volontà di apertura nei confronti dell’elettorato più diffidente e refrattario, in larga parte astensionista. E difficilmente l’avventura a “vocazione unitaria”, tesa ad aggregare una maggioranza non più vittima del duello tra guelfi e ghibellini, guadagna a Roma la possibilità di imporsi se non attraverso la figura del “centrista progressista” Calenda. Ma si tratta, insomma, di una prospettiva che passa per le primarie o per un’opera di sapiente cucitura, lasciando al candidato un ampio margine di iniziativa e mediazione? Uno sforzo di fantasia è necessario.