Il cinema e l’esperienza religiosa. Intervista a Raffaele Simongini.

In fondo per secoli – dice Simongini –  l’obiettivo delle arti è stato quello di rendere visibile ciò che è invisibile, ciò che denominiamo con le parole mistero, soprannaturale e trascendente. L’esperienza cinematografica può diventare un’esperienza religiosa, un rito che coinvolge una comunità disposta a confrontarsi con il soprannaturale, con l’irrazionale, con il trascendente e con l’invisibile.

Raffaele Simongini, docente di Storia del cinema e Fenomenologia delle arti contemporanee all’Accademia di Belle Arti, saggista e documentarista (autore di numerosi programmi d’arte per Rai Educational), si occupa in particolar modo di teoria dell’immagine nelle aree disciplinari delle arti visive con particolare attenzione al cinema.

Cinema e religione, un rapporto complesso?

Si dovrebbe cominciare dalla definizione del termine religione, definizione che non potrà mai essere esaustiva, considerando la complessità dell’argomento. Tra le molte teorie, preferisco quella che ha enunciato il grande filosofo e psicologo nordamericano William James nel saggio Le varie forme dell’esperienza religiosa del 1902, in cui l’autore orienta l’attenzione sui sentimenti religiosi e su come si manifestano a livello psicologico nei soggetti analizzati.

Secondo James, la religione definisce “i sentimenti, gli atti e le esperienze d’individui nella loro solitudine, in quanto comprendono di essere in relazione con qualsiasi cosa che possono considerare il divino”. D’altra parte è un’esperienza religiosa molto comune quella di provare un’insoddisfazione esistenziale, scandita dalla contraddizione tra la consapevolezza di una finitezza temporale e l’aspirazione ad una eternità regolata da un ordine superiore. In particolar modo il filosofo esalta il primato dell’esperienza vissuta, dell’immaginazione creatrice e del sentimento, rispetto agli aspetti dottrinali appartenenti alle religioni istituzionali. Inoltre l’interpretazione psicologica di James consente di inserire la religione all’interno di un discorso più ampio che coinvolge la natura umana. In sintesi: la religiosità è un’attitudine psicologica dell’umanità che si manifesta in ogni individuo dotato di una coscienza e di un inconscio, dove risiedono le risorse interiori più originarie dell’umanità, ispirate dal senso del divino e dal sacro. Per James infatti la coscienza non è che una piccola isola perduta nel grande mare dell’inconscio. In tal senso le sue analisi sono proficue soprattutto se collegate a esperienze estetiche. In particolar modo alcuni artisti, e nel nostro caso i cineasti, esprimono sentimenti religiosi molto particolari, raramente dettati dalle convenzioni della professione di fede o da tradizioni consolidate da abitudini familiari. Essi infatti hanno una vita interiore costellata da una religiosità travagliata, da un senso del sacro tormentato dal dubbio, dall’angoscia davanti al nulla, dall’impotenza nei confronti del mistero dell’Universo e da forme di sofferenza caratterizzate dalla melanconia o dalla depressione.

In fondo che diritto abbiamo di credere che il divino compia la sua opera solo per mezzo di spiriti perfetti? Talvolta anche in un individuo imperfetto, quale può essere l’artista, si può scorgere uno strumento più adatto ad un elevato scopo, quello di suscitare in noi un sentimento religioso. Ciò che conta, infatti, è unicamente l’opera compiuta, anche se l’artefice sia in realtà pieno di difetti o afflitto da angosce esistenziali. Pertanto la religione dovrebbe essere osservata come un’esperienza individuale di dialogo con il divino, fondata sul sentimento.

Scriveva Federico Fellini a tal proposito: “Chi fa un mestiere come il mio, l’artista, anche se non vuole porselo sul piano etico e della responsabilità, vive in un sentimento che per forza di cose è religioso”.

Il cinema, quindi, come le arti visive in passato, può suscitare o raccontare esperienze religiose? 

In fondo per secoli l’obiettivo delle arti è stato quello di rendere visibile ciò che è invisibile, ciò che denominiamo con le parole mistero, soprannaturale e trascendente. 

Ha ragione il cardinale Giancarlo Ravasi quando collega le origini del cinema a quelle della teologia, fondate sull’immagine e la parola.   

Non solo, ma la comunicazione neotestamentaria dei Vangeli, rispetto a quella del Decalogo, fonda la rappresentabilità della religione sulle immagini. Inoltre il linguaggio teologico è riconducibile a una struttura simbolica e analogica, come quella cinematografica.

Tuttavia, rispetto alla pittura e alla scultura, se il cinema è stato condannato alla riproduzione mimetica del mondo fisico, determinato dal medium fotografico, è pur vero che trae la sua forza nella presenza dell’immagine sul grande schermo, “nella fisicità delle emozioni, per cui il trascendente diventa l’immanente che vive nella vibrazione di un gesto, nell’esperienza di un volto, nella forza di una parola”, come ha scritto lo storico del cinema Edoardo Bruno.

L’esperienza cinematografica può diventare un’esperienza religiosa, un rito che coinvolge una comunità disposta a confrontarsi con il soprannaturale, con l’irrazionale, con il trascendente e con l’invisibile. Si tratta di assistere a rappresentazioni simboliche costituite da immagini in movimento, che suscitano un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, un senso nascosto che le parole nella loro accezione letterale non possono chiarire. Probabilmente la natura simbolica delle immagini, nel senso più elevato del termine, definisce l’affinità tra l’esperienza cinematografica e quella religiosa. Inoltre il simbolo è un utile antidoto alla superficiale e ingannevole moltiplicazione delle immagini prodotte dai media. 

Nella società attuale, nella quale ogni oggetto di consumo è ridotto a immagine, e dove le immagini dominano le nostre esistenze, si devono stabilire modelli e criteri di distinzione tra le immagini. Tento di spiegarmi meglio: occorre distinguere tra immagini appartenenti a una sfera universale e simbolica della sensibilità, forme di conoscenza e d’identità che aspirano a perdurare nel tempo, come nel caso delle immagini proiettate sul grande schermo, e quelle invece appartenenti alla sfera della comunicazione, che esprimono la fugacità della nostra vita senza lasciar traccia dentro di noi. Infatti, la produzione e il consumo delle immagini in movimento si caratterizzano per un’evidente varietà di supporti tecnologici, come smartphone, computer, e altre tipologie di schermi; ciò comporta l’esposizione a una quantità eccessiva d’immagini che provocano una specie di accecamento simbolico: si guarda senza ricordare e senza fare esperienza. 

Il cinema muore quando i film affogano in un flusso indiscriminato d’immagini, in un archivio senza fondo dove giacciono immagini consumate in un istante. Il cinema sopravvive se continua il processo di rappresentazione della nostra esistenza fondato su un rituale che si ripete fin dalla notte dei tempi: dai racconti delle Sacre Scritture, al vecchio saggio del villaggio che attorno al fuoco narrava storie riguardanti il sacro, fino ad Omero, il padre di tutti i poeti, che innalzò il racconto fin sulle vette del mito. Dopotutto le immagini in movimento e le storie sono atti simbolici di resistenza nei confronti della morte e di una ricerca di significato nella nostra vita. 

Nella relazione tra cinema e religione ci sono stati molti film ispirati alla Bibbia?

Certo, per molto tempo, fin dalle origini, il cinema ha dedicato alla religione pellicole a soggetto biblico o comunque ispirate a valori più prettamente cristiani. Non è però l’argomento che intendo sviluppare. Non sono gli effetti speciali di Hollywood a suscitare l’aspetto sacro nel cinema, e neppure storie ispirate alle Sacre Scritture. Sono altre forme spirituali e culturali a suggerire sentimenti religiosi. 

Sussiste una relazione prioritaria tra cinema, sogno, mito e religione?  

Ora se vogliamo riflettere attorno alla funzione del cinema, o per meglio dire, a una particolare funzione che non si esaurisca in un senso estetico o di puro intrattenimento, si può asserire che il cinema corrisponde, in virtù dei suoi aspetti simbolici, a caratteristiche simili al mito, al sogno e al sentimento religioso. Sto pensando a un ragionamento suggerito da Joseph Campbell, tra i più autorevoli studiosi dei miti dedicati alla figura dell’eroe e ispiratore di numerosi film statunitensi, secondo cui il mito non è molto diverso dal sogno. 

“Perché in sogno abbiamo un’esperienza personale di quel fondamento profondo e oscuro che sta alla base delle nostre vite coscienti, mentre un mito è il sogno di una società. Il mito è il sogno pubblico e il sogno è il mito privato. Se il tuo mito privato, il tuo sogno, coincide con quello della società, sei in buon accordo con il gruppo. Altrimenti ti aspetta un’avventura nella foresta buia”

Come non associare queste parole a quelle espresse dal genio di Fellini:

L’individuo attraverso i sogni esprime quella parte di se stesso più segreta, misteriosa, inesplorata che corrisponde all’inconscio, così la collettività, l’umanità farebbe la stessa cosa attraverso la creazione degli artisti. La produzione artistica cioè, non sarebbe altro che l’attività onirica dell’umanità”

Il mito indica un tempo prossimo all’eternità mentre il sogno un istante vissuto dal nostro inconscio. E’ l’eternità di un istante che il cinema realizza trasformando l’immanente nel trascendente, il materiale nello spirituale, il profano nel sacro.

Anche il teorico del cinema, André Bazin ha scritto qualcosa riguardo al sacro.

Bazin crede nella realtà, che grazie al cinema e alla temporalità delle immagini, 

restituisce l’aspetto sacrale finalizzato alla vittoria sulla morte.

Nel saggio Che cosa è il cinema? André Bazin ricorre alla psicologia per ricondurre le origini delle arti plastiche al complesso della mummia; ciò comporta nell’umanità l’esigenza di sostituire con l’immagine ciò che è destinato a dissolversi. In questo senso il cinema costituisce l’atto finale di una storia dell’arte fondata su un comune intento, quello di resistere al divenire e alla morte. Il cinema ha introdotto il movimento e la durata nel mondo delle immagini, rendendo eterno quell’istante strappato alla contingenza della realtà mostrata sul grande schermo. In tal modo l’indagine fenomenologica della cinepresa è indirizzata alla realtà quotidiana per scorgere nei fenomeni i riflessi del sacro. Ogni istante è pervaso da una sacralità che riscatta il reale dalla materialità. E’ uno dei motivi per cui Bazin amava il cinema di Roberto Rossellini. Un senso di attesa e di angoscia che si risolve in un atto improvviso di fede. Un’epifania, una manifestazione del sacro che colpisce, come San Paolo sulla via di Damasco, i personaggi. Penso all’episodio de Il miracolo con Anna Magnani e Federico Fellini o a Francesco, Giullare di Dio.

Oltre a Bazin, sempre in un’area teorica francese, ricordiamo l’abate Amédée Ayfre, che ha proposto un’interessante lettura della relazione tra sacro e cinema, attraverso due aspetti, secondo l’analisi del docente di teologia, Davide Zordan: lo stile della trascendenza e lo stile dell’incarnazione.  Il primo stile adatta il rigore ieratico e stilizzato dell’arte bizantina alle immagini cinematografiche, secondo un’espressività austera e una messa in scena essenziale.

Il linguaggio adottato dal regista restituisce una visione liturgica dei fenomeni, secondo principi ispirati al cristianesimo.

Ad esempio possiamo ritrovare lo stile trascendente in Ordet di Theodor Dreyer, che sviluppa una problematica tipica della religione protestante, quella della dottrina della predestinazione ma allo stesso tempo anche quella riguardante il miracolo della resurrezione. Per Dreyer, erede della tradizione filosofica di Kierkegaard, l’angoscia davanti al nulla può essere superata solo con la purezza della fede. Oppure Au hazard Balthazar di Robert Bresson, che riguarda la visione giansenista della vita: la consapevolezza che l’esistenza religiosa si muove tra predestinazione, eventualità casuale, libero arbitrio e probabilmente anche la Grazia. 

L’altro stile, quello dell’incarnazione, cattura le tracce del sacro sul corpo dei personaggi. Spesso le storie raccontano la crisi esistenziale del protagonista in una situazione drammatica, al limite della sopravvivenza. La condizione d’angoscia può diventare un grido di preghiera per la salvezza dei personaggi. In fondo sono essere umani disposti a credere al divino, per riscattare una condizione di miseria. Tra i film citati da Ayfre ricordiamo Umberto D. di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini e La strada e Il bidone di Fellini. 

E rispetto ad Andrej Tarkovskij?

Tra i grandi di sempre, leggiamo questa sua affermazione straordinaria: 

«L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. […] Il significato dell’arte è la ricerca di Dio nell’uomo. La ricerca del cammino per l’uomo».

Tuttavia l’esperienza cinematografica, quando aspira alla dimensione più religiosa, non si esaurisce solo nella ricerca di un senso dopo la morte, ma anche nell’esperienza di vivere per un istante in uno stato di grazia. E’ un vitalismo che si oppone al pensiero tragico del nulla, è  un concetto, a parer mio, che si lega al cinema di Fellini. Sono riflessioni ispirate da pellicole come Le notti di Cabiria e Otto e ½. Siamo progettati, infatti, per credere che le cose non nascano dal nulla e che non svaniscano del tutto. Rifiutiamo qualsiasi pensiero che conduca la nostra coscienza verso il baratro, verso l’abisso del vuoto. Spetta alla filosofia e alla religione, ma soprattutto all’arte di confortarci anche quando la situazione sembra precipitare, giù fino nelle voragini della coscienza. Non abbiamo scelte: preferiamo pensare a qualcosa che esista, anche se è nascosta, come una divinità, piuttosto che ad una prospettiva priva di speranze. E’ la natura umana ma anche quella del cinema: la persistenza di un’immagine che possa durare per l’eternità, come un ricordo indelebile. 

D’altronde Fellini collegava l’atto creativo ad un sentimento religioso:

“Chi ci guida nell’ avventura creativa? Come è potuto accadere? Soltanto la fiducia in qualcosa o in qualcuno nascosto dentro di te, qualcuno che conosci poco, che si fa vivo ogni tanto, una tua parte sorniona e sapiente che si è messa a lavorare al posto tuo può aver favorito la misteriosa operazione. Tu l’hai aiutata questa tua parte inconscia dandole fiducia, non contrastando, lasciando fare a lei. Questo sentimento di fiducia credo che possa definirsi sentimento religioso.”

Si tratta di attribuire un significato nella nostra esistenza?

Lo ha spiegato molto bene Campbell.

Non cerchiamo solo di attribuire un senso alla vita; piuttosto di sentire dentro di noi l’esperienza di essere vivi, di sentire una risonanza interiore che sia in sintonia con l’universo e con gli altri. Si tratta di provare il rapimento del vivere nel mondo e, perché negarlo, di meravigliarsi dinnanzi ad un capolavoro proiettato nella sala cinematografica.

Non è un caso che bisognerebbe parlare dei film di Fellini come se fossero una creatura viva, una persona, lasciandosi coinvolgere da un’emozione personale. 

Quando conosciamo qualcuno non teorizziamo sopra di lui, non domandiamo come è giunto a essere quel determinato individuo, non ricorriamo agli algidi ragionamenti razionali, ma restiamo affascinati dal carattere, dai sentimenti che suscita in noi, dall’energia che emana e da un inconscio che parla anche con i gesti. In una parola: empatia.

Da quello che hai detto la sala cinematografica può diventare un luogo “sacro”? 

Ti rispondo ancora con le parole di Joseph Cambell:

“Bisogna avere uno spazio o dei momenti particolari, oppure un giorno, in cui non sapere che cosa scrivono i giornali, o dove sono i nostri amici, né gli obblighi che abbiamo verso gli altri e quelli che gli altri hanno nei nostri confronti. Uno spazio in cui poter fare semplicemente esperienza e sviluppare ciò che siamo e potremmo essere. E’ il luogo dell’incubazione creativa. All’inizio può accadere che non succeda niente, ma se possiedi un luogo sacro e te ne servi, può darsi che qualcosa avvenga”. 

Spesso pensiamo che il mondo sia diventato un brutto e finto spettacolo a cui non crediamo più, un pessimo film guardato in una sala cinematografica mal attrezzata. Tuttavia possiamo tornare a credere nel mondo anche attraverso il cinema, come ha scritto Gilles Deleuze: “Bisogna che il cinema non filmi il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame.
Ci si è spesso interrogati sulla natura dell’illusione cinematografica. Restituirci la credenza nel mondo, questo è il cinema moderno (quando smette d’essere brutto). Nella nostra universale schizofrenia abbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo”

Nel corso del tempo alcuni cineasti hanno suggerito attraverso le immagini la possibilità di credere a qualcosa di ordine superiore.  La credenza in un mondo che altrimenti rischia di dissolversi in una ragione calcolante universale, d’ispirazione puramente scientifica, che non si interroga più sul senso della nostra esistenza.

Ci siamo dimenticati di Ingmar Bergman?

Nel cinema di Ingmar Bergman sussiste una visione del trascendente molto particolare. Quasi certamente il regista pensava ad un lento e progressivo allontanamento di Dio dagli uomini, dove trionfa la desolazione o l’assurdità dell’esistenza. Ha ragione Emanuele Severino quando sostiene che per comprendere il cinema di Bergman è necessario partire da Nietzsche e dalla morte di Dio. Nella prima parte della carriera affronta spesso il problema della questione dell’esistenza di Dio, soprattutto nel Settimo sigillo. Poi improvvisamente cala “il silenzio”, termine che dà il titolo ad un film del 1963, con cui il regista conclude la trilogia iniziata con Come in uno specchio (1961), dove il problema della fede giunge fino alla follia della protagonista e Luci d’inverno (1962), dove invece Bergman affronta la crisi religiosa di un pastore protestante. 

Più ci inoltriamo nella sua filmografia e maggiormente il problema del nulla prende il sopravvento su quello di Dio.

Prendiamo ad esempio Persona (1966), il senso ultimo del film può essere sintetizzato leggendo un brano tratto dalla sceneggiatura: 

“Le grida della nostra fede e del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio, sono una delle più terribili prove della nostra innegabile solitudine, e della costante paura che ci possiede”.

Altri registi?

Oltre a quelli già citati, penso ad Accattone, Mamma Roma e Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, a La leggenda del Santo bevitore di Ermanno Olmi. Per i registi stranieri al Decalogo di Krzysztof Kieslowski o alla Via Lattea di Luis Bunuel, il quale affermava di essere ateo per grazia di Dio; nella contemporaneità a First reformed (ispirato a Luci d’inverno di Bergman e al Diario di un curato di campagna di Bresson) e a Il collezionista di carte di Paul Schrader, e infine a The tree of life di Terence Malick. Ricordiamo che Paul Schrader ha scritto un saggio intitolato “Il trascendente nel cinema”, in cui analizza le opere di Dreyer, Bresson e Ozu.

Sono solo i primi nomi che mi vengono in mente, la lista sarebbe troppo lunga.