Il deserto dei Tartari: il lungo tempo dell’inutile attesa, struggente metafora della vita.

Omaggio a Dino Buzzati a cinquant’anni dalla sua scomparsa. Il testo è pubblicato su “Democraticicristiani- Per L’Azione”in uscita domani nella versione digitale (pdf).

Nelle nostre rivisitazioni del passato non può non trovare spazio il ricordo di persone che hanno lasciato una traccia profonda del loro passaggio nelle vicende esistenziali, culturali e artistiche del proprio tempo. Con una avvertita consapevolezza: che il render loro omaggio e richiamare al lettore quelle esperienze di vita così intense e ad un tempo intime, ove non nascoste, diventa una fonte inesauribile di scoperta e valorizzazione anche postuma: lo abbiamo sperimentato con Dostoevskij, con Kafka, con Beckett. Accade infatti che lo scorrere del tempo, anziché far dimenticare, contribuisca a restituire meriti e valore a personalità che in vita furono sovente sottostimate ove non disdegnate. Gran parte di ciò che in ambito letterario, artistico, teatrale, figurativo viene prodotto da chi esprime un talento, può apparire alla miopia degli osservatori confuso o banale, stucchevole o incompreso, irrilevante ed estemporaneo, poi sovente matura con lo scorrere degli anni e disvela grandezze ed originalità che la critica coeva – troppo legata agli stereotipi del mestiere per comprendere la “parola nuova”, parafrasando una metafora di Dostoevskij – non era stata in grado di comprendere e stimare. Accadde a Bach, a Proust, al citato Kafka, a Van Gogh, a E. A. Poe, a Dickinson, tanto per menzionare alcuni nomi.

Anche Dino Buzzati, giornalista, scrittore, pittore, autore teatrale, mente eclettica in uno spirito mite, riservato, riflessivo, intimista, meditativo può essere annoverato in questa schiera di talenti assoluti di cui si sta scoprendo e valorizzando la grandezza, la genialità, la capacità di esprimere sentimenti universali e con essi la nostra gratitudine per aver ricevuto in dono capolavori assoluti e unici.

Il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa (1972-2022) può essere l’occasione per la riscoperta e una doverosa valorizzazione, specie se consideriamo che si tratta di un autore i cui libri – in particolare Il deserto dei Tartari, l’opera più famosa e letta – sono tradotti in molte lingue, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, forse più di quanto gli dovrebbe in riconoscenza e gratitudine anche il nostro Paese.  Ed è a questo capolavoro della letteratura del ‘900 che rivolgiamo la nostra attenzione: ci interessa non tanto o non solo la trama narrativa (”Di sicuro risulta piuttosto agevole raccontare la trama poiché, sostanzialmente, non succede niente”) quanto una certa visione dell’esistenza umana, fondata su eventi attesi e sul dovere di stare al proprio posto per aspettarli e fronteggiarli. Un tema già considerato nella riflessione su ‘Il processo’ di Fanz Kafka (di cui certamente Buzzati avvertì l’influsso e l’ispirazione) ma che ora riprendiamo in un’ottica speculare: nel capolavoro del romanziere boemo il personaggio principale è vittima di meccanismi occulti che lo rendono colpevole senza una sostenibile ragione e condannato a morte, nel romanzo dello scrittore  bellunese un militare viene inviato in un presidio di confine per respingere un paventato attacco dell’esercito Tartaro ed assume questo incarico immedesimandosi in esso, quasi in modo simbiotico, per assolvere deliberatamente ciò che ritiene un dovere, accettando ogni conforme condizione di vita e di sacrificio imposto dalla sua scelta.

Non è vero che “non succede niente”: trascorre infatti una lunga e importante fase della vita, quella – per descrivere sommariamente la trama che c’è e spiega molte cose – della carriera del sottufficiale Giovanni Drogo che viene inviato a far parte della guarnigione di stanza nella Fortezza Bastiani, ai confini dello Stato, in una regione lontana e periferica, per presidiarla e difenderla da possibili attacchi dell’esercito dei Tartari provenienti dalla immensa pianura che si stende ai piedi del fortilizio dell’esercito.

È nell’attesa che si compie il senso dell’esistenza e il suo destino: l’apparente “nulla” della routine in una guarnigione militare diventa il “tutto”.

L’apparente “nulla” della routine in una guarnigione militare diventa il “tutto” perché nell’attesa si compie il senso dell’esistenza e il suo destino. Siamo nel pieno di un contesto narrativo saturo di obblighi e doveri, di adempimenti da assolvere, poiché il nemico potrebbe giungere all’improvviso e non ci si dovrebbe far trovare impreparati. La traccia (la trama) è già scritta e si sostanzia e si satura nella missione militare come compito e dovere: spiegazione diversa e gravida di connotazioni etiche rispetto alla “vita come attesa” di Samuel Beckett, dove la monotonia dello scorrere del tempo può essere interrotta dalla decisione di farla finita, dove lo spazio è contratto e limitato in un perimetro vitale di sopravvivenza forzata, dove Godot non arriva mai, anche se lo si aspetta ma con scarsa convinzione, mentre Drogo trascorre la sua vita nell’attesa di un nemico che presto o tardi – questo è il suo timore e insieme la sua speranza – arriverà e non dovrà trovarlo impreparato. Poiché la trama della realtà narrata nel romanzo è l’attesa stessa, tra il tempo che scorre lentamente e lo spazio scrutato, dal cui orizzonte nulla si materializza: in questo vuoto di esercitazioni  di routine e di un deserto che resta tale stanno i sentimenti del protagonista e la sua vigilanza tenace, fino alla fine.

Lo scrittore in un’intervista affermò che lo spunto per il romanzo era nato: «…dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva». Il tema centrale del romanzo è dunque quello della “fuga del tempo”. Aggiungerei anche la dimensione dello “spazio” –  indefinito, a perdita d’occhio, esteso, incommensurabile – esso descrive bene la nostra collocazione esistenziale: da un lato siamo convinti di padroneggiare i contesti dell’esistenza, dall’altro ne scrutiamo la distanza, ansiosi e condizionati da eventi attesi e imprevedibili. Una dimensione mutuata delle sue montagne bellunesi, dove amava trascorrere il tempo libero per momenti di riflessione, silenzio e isolamento come si ricava da un articolo del 1960, rilanciato appena qualche tempo fa.

Giovanni Drogo – assunto l’impegno di difendere la Fortezza da un improbabile ma temuto, possibile attacco – porta a termine la sua missione: l’impegno preso lo legava all’attesa come dovere assoluto.

Ciò che Dino Buzzati argomenta come spunto motivazionale dell’incipit narrativo è la sintesi di una vita regolata da impegni, orari, compiti, incombenze: certamente per un amante delle sue montagne e valente scalatore, gli spazi della redazione di un giornale risultavano angusti, mentre  le sue radici e i suoi ambienti di origine non potevano non suscitargli fantasie e pensieri più liberi (ciò anche se la prima edizione de ‘Il deserto dei Tartari’ uscì nella tarda primavera del 1940, mentre Buzzati si trovava nell’Africa orientale, come inviato del Corriere della Sera).  Tuttavia si tratta di consuetudini che traslate nel romanzo ci raccontano una sequenza abitudinaria e senza esiti ma regolata dal senso del dovere di compiere con diligenza un incarico ricevuto. Questo è un altro grande tema sotteso alla trama e al racconto: Giovanni Drogo – assunto l’impegno di difendere la Fortezza da un improbabile ma temuto, possibile attacco – porta a termine la sua missione, nella routine di liturgie e di regole militari, fino alla morte, pur avendo avuto  la possibilità di un trasferimento ad una sede meno logorante. Si allontana infatti, per disposizione dei superiori, dal Forte Bastiani ma poi vi fa ritorno per scelta: l’impegno preso lo legava all’attesa come dovere assoluto.

Questo fondamento etico dell’attesa è alla base di un dovere militare, ma nell’intenzione dello scrittore e giornalista va esteso a ciò che facciamo nella vita civile rispetto ai nostri contratti sociali e alle loro convenzioni. La routine e le abitudini finiscono a volte per prendere il sopravvento rispetto a possibili azioni divergenti: l’attesa e lo scorrere del tempo saturano i nostri obblighi e le nostre incombenze fino a diventare il senso stesso della vita. Le regole e la parola data, l’impegno assunto scandiscono lo scorrere del tempo, quasi inconsapevolmente,  poichè “non siamo noi che custodiamo le regole, sono le regole che custodiscono noi”: la realtà è ferma sempre uguale, giorno per giorno, mese per mese, anno per anno.

Ma nell’immaginario fantastico del personaggio prende forma e si materializza l’imminenza di un evento a cui Drogo in realtà non parteciperà mai. Solo quando si avvisteranno all’orizzonte lontano dei movimenti che potrebbero essere l’inizio dell’arrivo tanto atteso, l’ufficiale di guarnigione Drogo ne sarà escluso, perché lo scorrere della vita ci ingloba e ci rende partecipi di un fluire più ampio della storia ma la nostra soggettività ne è solo parte e la continuità del prima e del dopo la assorbe e insieme ad essa le fantasie, il senso di incompiuto che nella mutevolezza del susseguirsi dei fatti rendono sempre la realtà diversa dalla sua immaginazione.

Solo guardando a ritroso si può scoprire se l’impegno profuso nell’assolvimento di un dovere può essere fonte di recriminazione rispetto a soddisfazioni o desideri non cercati e non colti: qui sembra che la recensione del libro in ‘Mescalina.it’ colga nel segno: l’attesa come metafora e spiegazione della vita sta all’opposto del “carpe diem” ma ciò implica che la valutazione sommativa e la ricapitolazione di tutte le cose si compiano al termine dell’esistenza. Per assolvere il proprio dovere militare il sottufficiale poi graduato Giovanni Drogo rinuncia dunque all’altrove: il tempo e lo spazio sono quelli assegnati ed egli resta loro fedele fino all’ultimo dei suoi giorni.

Viene subito da pensare a quante vite si consumano nella perenne attesa di un evento solo probabile e nello spazio – ora angusto e ristretto (i contesti interni della Fortezza Bastiani) come sono i luoghi della nostra infinita e ripetuta quotidianità – ovvero in distese infinite, alterità intraviste o immaginate, ma non praticate né esperite, se non come rappresentazioni mentali. Dopo essere stato a casa in licenza, per 4 anni, Drogo ottiene di ritornare alla Fortezza Bastiani: il suo mondo è lì, non riesce più ad accettare il senso di smarrimento che gli provoca la vita cittadina. Intanto gli organici della piazzaforte sono stati ridotti e la guarnigione è appena sufficiente per tenerla aperta. Ma nulla di tanto atteso accade. Un giorno si avvistano dei movimenti in fondo alla pianura ma si tratta della costruzione di una strada ad opera del Regno del Nord, ci vorranno almeno 15 anni per attraversare il deserto e raggiungere la zona intorno alla Fortezza, inoltre si pensa ad un’opera di ingegneria civile, non ad una invasione armata.

I riferimenti geografici e i Tartari stessi sono ricavati da Buzzati dal Milione di Marco Polo

Praticamente tutti gli anni trascorsi in quella guarnigione sono passati invano, immaginando un evento che non avverrà mai. Nel frattempo Drogo è diventato maggiore e vice comandante della Fortezza Bastiani: lì ha speso tutta la sua vita militare. E proprio nel momento in cui improvvisamente giungono alla Fortezza due reggimenti di rinforzo perché davvero questa volta può essere probabile una guerra contro il regno del nord (i riferimenti geografici e i Tartari stessi sono ricavati da Buzzati dal Milione di Marco Polo), Drogo – ormai irrimediabilmente malato –  viene fatto spostare dal comandante Simeoni in una locanda sperduta, per far posto ai nuovi ufficiali: lì la morte lo coglierà –  altri hanno preso il suo posto forse nel momento in cui si sta materializzando l’evento atteso tutta la vita – ma senza cedere a sentimenti di rabbia o delusione.

Drogo, infatti, gettando uno sguardo a ritroso su tutta la sua vita, capisce negli  ultimi istanti quale fosse in realtà la sua personale missione, l’occasione per provare il suo valore che aveva atteso da quando era entrato il primo giorno nella Fortezza Bastiani: affrontare la morte con dignità, “mangiato dal male, esiliato tra ignota gente”. Drogo pur non realizzando lo scopo militare della sua esistenza si scopre ad aver sconfitto il nemico più grande: non la morte ma la paura di morire. Con la consapevolezza di aver combattuto questa battaglia decisiva, egli finisce la sua vita dunque da vero soldato, rappacificato con la sua storia, della quale ha finalmente trovato un senso che supera la sua vicenda personale.

Trovo che la struttura narrativa del romanzo abbia una dimensione solo apparentemente essenziale e scarna: descrive in sostanza la lunga permanenza del sottufficiale e poi graduato Giovanni Drogo nella guarnigione della Fortezza Bastiani, per fronteggiare un paventato attacco dei Tartari attraverso il prospiciente, immenso deserto. È la vicenda di un militare che assolve ad un compito ricevuto ma lo fa con convinzione, immedesimandosi nell’incarico fino a farne la ragione di una vita. Una trama definita lineare, riduttiva, inesistente. Trovo invece prevalente in essa il tema dell’attesa, già considerato in altri autori e argomento diffuso nella letteratura del 900, secondo coordinate spazio (deserto- vita ristretta e limitata all’interno della Fortezza) – temporali (lo scorrere dei giorni, dei mesi e degli anni, di cui si ha spesso contezza solo alla fine).

Scorgo anzi nella narrazione e nei suoi impliciti un senso struggente del concetto di attesa. Drogo sa che per adempiere alla sua missione militare deve dedicare la sua vita all’incarico ricevuto, svolgere con dedizione totale questo adempimento in nome di un interesse superiore: per un militare è la difesa dei confini della Patria, come per un civile potrebbe essere il perseguimento del bene comune.

La figura di Drogo, se mi è consentita l’analogia, mi ricorda molto il personaggio del libro “Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro, dal quale prese spunto il regista James Ivory per un omonimo film che ci fece dono della magistrale interpretazione di Anthony  Hopkins. In entrambi i casi si tratta di vicende esistenziali imperniate sull’adempimento di un dovere, per un obbligo professionale, morale, per la semplice parola data.

Nel tempo della rivendicazione dei diritti un libro che tratta il senso del dovere riveste un carattere di attualità

Credo che il punto cruciale sia proprio questo. Il concetto di vita come attesa implica quello di un continuo rimando della sua realizzazione, della sua pienezza esistenziale. Penso che in tempi di prevalenza dei diritti di ciò che spetta, che va rivendicato, di soggettività e individualismi, un libro che tratti il tema del “senso del dovere” sia antropologicamente attuale. Anche in sede giudiziaria, oltre che nella quotidianità del nostro essere e del nostro porsi, mi pare  sia ora prevalente la ricerca delle attenuanti: di quelle giustificazioni cioè che creano alibi e consentono comportamenti eticamente divergenti, come avvalersi della facoltà di non rispondere, trincerarsi dietro a silenzi impenetrabili, ammalarsi facilmente di sindrome da risarcimento, pescare nell’inconscio per cercarvi recondite motivazioni.

Buzzati ne Il deserto dei Tartari pone al centro, come più volte ripetuto, il tema dell’attesa e ne fa l’essenza della vita stessa. Ma accanto all’attesa come dominio imposto dagli eventi o dal loro non verificarsi, ricorda che l’esistenza umana cammina per la retta via se reca con se, ad ogni svolta, ad ogni incrocio, ad ogni sosta o ripartenza il “senso del dovere” come imperativo morale che scaturisce dalla coscienza. A volte ci perdiamo dietro sofismi senza costrutto o a spiegazioni contorte e arzigogolate. La lezione di Buzzati mi sembra invece chiara, cristallina: per questo il libro va letto e meditato, come tutte le narrazioni che scavano nel profondo per cercare una onesta, lineare verità.

Mi sia consentito concludere con la citazione di un breve pensiero dello stesso Buzzati, riferita a se stesso. Il cronista e giornalista Dino Buzzati, in forza al “Corriere della Sera”, possedeva una vivacità narrativa straordinaria, sia in forma di racconti brevi che di romanzi, di cui Il deserto dei Tartari è certamente il più conosciuto. Tuttavia egli si considerava più un pittore che un narratore, nonostante il successo dei suoi scritti. «Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista». Questo esprime una naturale modestia che lo rende ancora più autorevole, anche se una rivisitazione postuma dei suoi scritti ci aiuterebbe a conoscerlo meglio e valorizzarlo. Per questo l’anniversario dei cinquant’anni dalla sua scomparsa può essere una buona occasione da perseguire.

 

 

                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dino Buzzati (Belluno 1906 – Milano 1972), tra i più originali autori italiani del Novecento, entrò nel 1928 al «Corriere della Sera», di cui fu cronista, redattore e inviato speciale. Esordì nel 1933 con Bàrnabo delle montagne, cui seguirono numerosi romanzi e racconti di successo tra i quali: Il segreto del Bosco Vecchio (1935), Il deserto dei Tartari (1940), La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945), Paura alla Scala (1949), Sessanta racconti (premio Strega nel 1958), Un amore (1963) e Il colombre (1966). Fu pittore, scenografo teatrale, costumista, fumettista, cultore di musica classica, valente alpinista nelle sue montagne bellunesi.