Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Padre Giulio Albanesi

Mai come oggi occorre scongiurare, un po’ a tutte le latitudini, la strumentalizzazione del sentimento religioso per fini eversivi. Come ebbe a dire Papa Francesco nel corso della sua visita a Tirana nel settembre del 2014, nessuno può permettersi di prendere a pretesto la religione «per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa di tutti». Da questo punto di vista, la dichiarazione congiunta firmata da Papa Francesco e dal grande Imam Ahmed al-Tayyeb ad Abu Dhabi è fondamentale, recando un titolo che è tutto un programma all’insegna dell’agognato cambiamento: «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune».

Il documento non solo condanna l’uso delle religioni per giustificare la violenza — «nessuno può uccidere nel nome di Dio» — ma dichiara solennemente che i cristiani non sono minoranze da tollerare ma cittadini a pieno titolo. Viene pertanto sconfessato l’estremismo jihadista che frantuma l’unità della famiglia umana. Un indirizzo, peraltro, in linea con la dichiarazione congiunta che proprio a fine marzo Papa Francesco e il re del Marocco, Mohammed vi, hanno sottoscritto sull’unità di Gerusalemme «avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace». Gli scettici, naturalmente, penseranno che si tratti di un’illusoria utopia, ma ogni bagliore di luce — e questi avvenimenti lo sono a tutti gli effetti — può illuminare il cammino della speranza. Non solo in riferimento alla percezione che noi occidentali abbiamo del mondo islamico, ma anche guardando all’impatto positivo di questo indirizzo in molti Paesi africani provati dal terrorismo: dal Burkina Faso alla Nigeria, dal Kenya alla Somalia, dalla Libia all’Egitto. A questo proposito, chi scrive avverte il bisogno, quasi istintivo, di condividere con i lettori di questo giornale un’esperienza vissuta, in Somalia, nella seconda metà degli anni Novanta. Allora, in circostanze particolari e inaspettate, mi venne offerta la possibilità di celebrare la santa messa in una cittadina non lontano dalla capitale Mogadiscio.

Oltre ai volontari e cooperanti di una nota organizzazione non governativa italiana, tra i presenti vi erano il presidente della corte islamica locale, assieme agli anziani del suo consiglio. A scopo cautelare, considerando che in Somalia sono ancora presenti formazioni estremiste, inquadrate nel cartello degli al Shabaab, è prudente omettere i nomi di persona. Lo scenario che allora avevo di fronte era quello di un paese che aveva assistito, a fronte di un crescente stato di caos e di grave carestia, al fallimento dell’operazione internazionale “Restore Hope” (letteralmente “riportare la pace”), col risultato che a dettare le regole del gioco erano i signori della guerra. Per chiarezza è opportuno ricordare che dalla caduta del regime di Siad Barre, nel lontano 1991, la Somalia versa ancora oggi in una condizione di permanente dissoluzione, ostaggio di numerose bande armate che seminano morte e distruzione. Nonostante vi siano state numerose iniziative diplomatiche e a Mogadiscio sia insediato un governo internazionalmente riconosciuto, nessuna autorità è riuscita a imporre il proprio controllo e dunque lo stato di diritto, su tutto il paese. Tornando, comunque, indietro con la moviola del tempo, ventitré anni fa, la parcellizzazione del territorio somalo era tale per cui le condizioni di sicurezza cambiavano a seconda delle regioni, dei clan e dei sotto clan.

La provvidenza volle che in quel frangente mi trovassi a visitare una cittadina dell’entroterra dove la locale corte islamica, con modalità, devo confessare, estremamente invasive (esecuzioni, amputazioni e quant’altro), assicurava una certa legalità. Fu proprio il presidente di quel tribunale islamico, fautore della shari’a (la legge islamica), ad accettare un inatteso dialogo nel corso di un’intervista che poi, alcune settimane dopo, pubblicai sul settimanale Epoca. Mi salutò cordialmente invitandomi a sedere in una stanza cupa e spoglia. Uno spiraglio di luce mi consentiva, a malapena, di prendere appunti sul mio taccuino. Ci separava una scrivania in legno intarsiato, retaggio dell’epoca coloniale italiana. A poca distanza, accovacciati su di una lunga panca, sedevano alcuni membri della corte. Devo confessare che mi risultava impossibile riuscire a riconciliare il messaggio di pace, di cui lo sceicco si ergeva paladino, con ciò che avevo appena visto all’ingresso dell’edificio in cui era insediata la corte. Uno spettacolo orribile e agghiacciante: due mani amputate, appese a una sbarra di metallo con una striscia di garza. Era stata la pena inflitta a due ladri di bestiame. Con una discreta carica di temerarietà, mista a incoscienza, mi permisi di contestare quelle pratiche disumane.

Il mio interlocutore, con una sorta di disarmante pacatezza, si difese affermando che quelle pene, per quanto cruente fossero, rappresentavano un deterrente contro la diffusa illegalità che minava la società somala. Quando il giorno dopo lo incontrai nuovamente, mi disse che aveva compreso quale fosse la mia vera identità: «tu non sei solo un giornalista, sei anche un prete». Ebbi paura d’essermi messo nei guai, ma lui sorrise, citandomi la quinta sura del Corano che testualmente recita: «In verità coloro che credono e i giudei, i sabei e i cristiani, tutti quelli che credono in Allah e compiono il bene, non avranno nulla da temere e non saranno afflitti». Gli chiesi, allora, se potessi celebrare la santa messa. Ancora oggi, sono in molti a rimproverarmi l’imprudenza di quella richiesta.

Me l’accordò all’istante e vi prese parte con grande rispetto. Da rilevare che da quelle parti vi era una chiesa, costruita da una congregazione missionaria italiana, che pochi mesi prima era stata rasa al suolo; restava in piedi solo il campanile, mezzo diroccato. Un’antica storia mediorientale racconta di un viandante che incontrò un mostro nel deserto. Inizialmente, il poveretto ebbe paura ma, riuscendo a scorgerlo più da vicino, s’accorse che era un uomo. Alla fine quando lo scorse negli occhi, riconobbe suo fratello. Questo vale per noi e per loro, nel reciproco rispetto della dignità della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio.