Il disegno di legge Calderoli sul regionalismo differenziato non è un nuovo porcellum ma un inedito trojan.

Antonio Decaro, Presidente dell'Anci, chiede una pausa di riflessione sul ddl Calderoli. Si saltano tutte le riserve di legge in ordine al procedimento legislativo e alla tutela dei diritti civili e sociali: il ddl si pone in totale antitesi con la Costituzione repubblicana. Di qui l’imbroglio di una legge ordinaria che si cerca addirittura di qualificare come attuativa della Costituzione.

Andrea Piraino

Il rinvio, su richiesta del presidente dell’ANCI Antonio Decaro, del parere della Conferenza Unificata sullo schema del disegno di legge “Calderoli” in ordine al regionalismo differenziato, per approfondirne la valutazione, ha costituito subito (fin dalla prima tappa, cioè, del lungo iter approvativo previsto) una significativa conferma delle perplessità che esso suscita a livello istituzionale. Ad indagarne il merito, poi addirittura, il ddl recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” si appalesa -bisogna dirlo a chiare lettere- come un colossale imbroglio. Non quindi, in base al precedente della vecchia legge elettorale 270/2005 voluta anch’essa da Calderoli, un nuovo porcellum ma, questa volta, un vero e proprio trojan. Un pericoloso malware che, come l’ingannevole “Cavallo di Troia” nell’antica Grecia, tende a creare le condizioni per distruggere in questo caso il regionalismo, facendolo deviare verso modelli di governance  di tipo sovranista ed, ultimamente, secessionista. Insomma, l’autonomia differenziata lungi dal costituire uno strumento per migliorare l’organizzazione del nostro Stato regionale e la sua efficienza operativa al fine di rendere più efficienti ed equi servizi ai cittadini si avvia a costituire un marchingegno che favorirebbe solo le aspirazioni egoistiche di alcune Regioni, dimentiche dei principi di eguaglianza e solidarietà prioritariamente stabiliti dalla Costituzione repubblicana e che vogliono mantenere esclusivamente per sé il surplus di reddito che producono grazie agli investimenti che l’intero Paese, in tempi diversi, ha fatto nei loro territori.

Per cercare di spiegare e rendere condivisibile la fondatezza di quanto ora detto, svilupperò delle brevissime considerazioni in ordine a tre precise quistioni di merito e poi, alla fine, una notazione, per così dire, di metodo.

La prima quistione è tale anche per lo stesso disegno di legge. Che in maniera apparentemente saggia stabilisce una pregiudizialità al trasferimento delle funzioni (con le relative risorse  umane, strumentali e finanziarie) concernenti materie riferibili ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP)  riguardanti i diritti civili e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale dal 2° comma dell’art. 117, lettera m, della Costituzione. Esso dice, nell’art. 4 comma 1, che tale trasferimento “può essere effettuato …soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard”.  I quali, nell’ipotesi in cui determinano oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica, sono finanziati dalla legge dello Stato. Ora, non è necessario essere grandi esperti di amministrazione per intuire che, impostata in questi termini, la pregiudizialità dei LEP rispetto al trasferimento delle funzioni si fermerà alla loro semplice “determinazione” rinviando il loro finanziamento sine die. Insomma, forse si potrà stabilire quali siano i livelli minimi delle prestazioni  pubbliche prima di operare il trasferimento delle relative funzioni alle Regioni che ne hanno fatto richiesta, ma certamente la loro realizzazione nel concreto delle situazioni territoriali resterà una semplice ‘speranza’. Con Reggio Calabria (171.246 ab.) ed i suoi 3 asili nido comunali che continuerà a restare sempre all’inseguimento di Reggio Emilia (169.640 ab.) che, tra sedi comunali e statali, ha ben 97 strutture pubbliche per l’infanzia! Questa è la realtà che deve essere affrontata quando si parla di livelli essenziali delle prestazioni e non mi sembra che secondo quanto stabilito nel ddl “Calderoli” vi sia il minimo sforzo per farlo con serietà, sapendo che in taluni casi, come questo evidenziato, il gap che bisogna colmare è di una portata enorme.

E vengo al secondo profilo di criticità che il ddl sull’autonomia suscita. In particolare, il Veneto che, secondo le vecchie bozze d’intesa e le costanti dichiarazioni del suo presidente Zaia, rivendica il riconoscimento  delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia per tutte e ventitré le materie possibili secondo quanto stabilito dall’articolo 116, 3° comma, della Cost.. Ma anche la Lombardia e l’Emilia Romagna, che rispettivamente chiedono maggiore autonomia in venti e diciassette delle materie previste, hanno fatto emergere con chiarezza che il loro modo di interpretare l’attuazione dell’autonomia differenziata è completamente illegittima dal punto di vista costituzionale. Basti constatare che, nell’ipotesi in cui si dovesse addivenire per una o più Regioni  al riconoscimento di maggiore autonomia in tutte le materie di legislazione concorrente, verrebbe stravolto il disegno costituzionale che soltanto nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato riconosce alle Regioni la cd. potestà legislativa residuale. In altri termini, si creerebbe un ambito di potestà legislativa esclusiva a favore delle Regioni richiedenti l’autonomia differenziata con la conseguenza di sconvolgere il riparto della potestà legislativa dell’intero regionalismo italiano. E ciò a prescindere anche dalla circostanza che oggi, a più di vent’anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, l’elencazione delle materie assegnate pure alla competenza delle Regioni necessiterebbe di una revisione che riportasse almeno le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, la “produzione, (il) trasporto e (la) distribuzione nazionale dell’energia” e il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” sotto l’ombrello della competenza esclusiva dello Stato. Ma tant’è. Ciò che qui conta, infatti, è mettere in rilievo che il disegno di legge “Calderoli” tutta questa tematica la ignora volutamente e non contiene nessuna norma che possa impedire il verificarsi di una simile situazione.

Così come nessuna attenzione è riservata dal ddl alla definizione delle condizioni e dei criteri in base ai quali lo Stato si possa determinare positivamente nel riconoscimento di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ad una Regione richiedente. La quistione -che è la terza cui volevo accennare- è di una importanza cruciale perché la mancanza di regole alle quali attenersi per chiedere l’attribuzione  dell’autonomia differenziata impedisce allo Stato di esercitare alcuna verifica in ordine alle motivazioni che muovono le singole Regioni e lo obbliga ad accettare l’intesa proposta senza avere la possibilità di opporre se non generici argomenti di natura formale o, al massimo, istituzionali. Correndo così il rischio di esporsi ad attacchi critici di permanente centralismo e soprattutto ad una negoziazione dell’intesa con la Regione richiedente priva di dati oggettivi e fondati su cui costruire la propria valutazione. Il che significa che la tanto strombazzata efficienza che viene ostentata per giustificare la richiesta di nuove competenze è un atto di fede che il Paese intero e le altre Regioni, a cominciare da quelle speciali, dovrebbero profferire nei confronti della Regione che pretende maggiori funzioni. Magari di fronte ad eventi come quelli registrati durante la pandemia da Covid-19, quando le disfunzioni sanitarie di Lombardia e Veneto furono svelate all’intera Europa. Non solo. Ma manca anche, in questo ddl “Calderoli”, qualsiasi  disposizione normativa che preveda l’analisi di impatto finalizzata a valutare l’efficienza e la ricaduta economica del sistema regionale alla luce delle nuove funzioni acquisite. Insomma, ancora una volta la sensazione che emerge prepotente è che la differenziazione ricercata con questa iniziativa legislativa sia tutto un espediente astuto per riuscire a drenare risorse da parte delle Regioni del Nord che per prime l’hanno richiesta.

Infine, alcune brevi considerazioni su un argomento che ho definito “di metodo” ma che riguarda il cuore del problema politico-costituzionale del regionalismo differenziato. Intendo riferirmi al ruolo che questo disegno di legge riserva al Parlamento. Sia in ordine al procedimento di approvazione delle intese fra Stato e Regioni sia in ordine alla determinazione dei LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard. In entrambi i casi si tratta di procedure complesse e farraginose che però si incentrano nel rapporto verticistico fra gli esecutivi: da un lato, il governo nazionale; dall’altro, le giunte regionali. E le Camere? Relegate al ruolo marginale di organismi consultivi che esprimono un parere non vincolante sullo schema di intesa preliminare tra Stato e Regione e quando sono chiamate ad approvare la legge non hanno alcun potere di emendamento: devono votare e basta! Così come non possono fare altro che esprimere un parere sui livelli essenziali delle prestazioni elaborati da una commissione tecnica e “determinati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”. E ciò per non dire anche delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per l’esercizio da parte delle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia che è previsto siano determinate da una Commissione paritetica Stato-Regione costituita interamente da rappresentanti dei governi nazionale e regionali. Insomma, una sorte di rivoluzione. Che, in un sol colpo, fa fuori tutte le riserve (assolute) di legge in ordine al procedimento legislativo (art. 72 Cost.) ed alla tutela dei diritti civili e sociali (artt. 2, 3 e 117 Cost.) e quindi si pone in totale antitesi con la Costituzione repubblicana. Cosa che certamente si può fare. Ma non con lo strumento della legge ordinaria. E, soprattutto, senza dichiararlo esplicitamente e con l’imbroglio di una legge ordinaria, per di più, qualificata come attuativa della Costituzione.

Ecco perché il disegno di legge “Calderoli” non è un nuovo porcellum ma un inedito trojan.