Il dito e la luna. La classe politica dei giorni nostri e la società concreta e reale.

Siamo troppo abituati a nutrirci di politica spettacolo. In questo modo perdiamo il contatto con l’effettiva consistenza della vita civile e politica. Se tutto diventa slogan, nulla sorregge l’azione dell’uomo pubblico. Cos’è il populismo? Basta una classificazione, consolidata per pigrizia o ignoranza, a rendere conto della dinamica politica? Anche il giudizio sui 5 Stelle esige di andare oltre il luoghi comuni.

 

Nino Labate

 

Sono da solo a constatare un pericoloso strabismo, forse di taglio menefreghista, delle nostre attuali élite, a cui concorre massicciamente anche il giornalismo schierato e fazioso dei giorni nostri? Facciamoci caso perché si tratta a mio avviso di una vera e propria caduta di stile, intellettuale e culturale, oltre che etica, rappresentabile con la metafora del dito e della luna.

 

Mi spiego meglio. Sembra infatti diffusa la pessima abitudine di dimenticarsi  della luna e di guardare sempre  al dito. Ove nel “dito” troviamo la superficiale e costante polemica quotidiana, unita alla  cronaca spesso offensiva e disonorante della nostra classe politica contro se stessa; e nella “luna” invece la profonda e mai scrutata a sufficienza “società concreta”, oggi nelle mani di pregiudizi e di luoghi comuni, nel suo reale sviluppo  storico e nelle sue trasformazioni ormai in stato avanzato.  Una società che appare sotto i nostri occhi con bisogni e nuove domande provocati da violenti cambiamenti culturali e sociali.

 

Un vizietto aristocratico ed elitario, questo, tipico delle oligarchie, che spinge ad osservare sempre chi sta piu in alto e  sopra di noi. Al massimo chi sta di lato e di fianco a noi. Uno  spiarsi fra “pari” ed eguali, insomma fra “pochi ma buoni”, dimenticandosi sempre di chi sta in basso e sotto di noi, dei  “molti ma cattivi”, verso i quali  mancano  risposte di “lunga durata” adeguate alla storia che viviamo e a quella che ci attende.

 

Le elite che si spiano

 

La metafora ci parla dunque del vizio di guardare costantemente verso l’alto, polemizzando con la classe politica e i partiti che la compongono; verso le élite che la formano e la disformano, la strutturano e la destrutturano, per studiarne le mosse e poi polemizzare, con attacchi spesso offensivi, ma sempre al di là di una fisiologica e democratica dialettica politica interpartitica. Si dirà che questa è la logica delle democrazie competitive oggi personalizzate e governate dai vari leader, ognuno alle prese con la politica spettacolo, con un marketing raffinato, con il tutto e il contrario di tutto, così come veicolato dai social.

 

Eppure c’è qualche utopista che comincia a pensare che questa logica sia destinata ad  essere superata o che sia al massimo transitoria. D’altronde sarà sempre tardi quando capiremo che “…siamo tutti sulla stessa barca! I primi esempi delle “Grandi Coalizioni fra diversi, qualche volta  “nemici”, sono arrivati dalla Germania, dalla Francia e dalla Spagna. E da qualche mese noi stiamo sperimentando qualcosa di simile con Draghi. Tuttavia non bisogna essere papalini e bergogliani per ammettere l’evidente necessità di remare insieme – evito di dire che siamo “Fratelli Tutti” – ammesso che riusciremo mai a capirlo, dispersi come siamo tra partiti e partitini, leader e leaderini.

 

Purtroppo ciò che conta adesso è la voglia di osservare attentamente e scrupolosamente cosa fa e dice l’uomo politico avversario, per poterlo attaccare e criticare. Scrutarsi a vicenda e polemizzare anche aspramente con il  “diverso”, sono il mantra del mondo politico attuale. Altro sembra non esserci.

 

Ci vengono in aiuto le parole inflazionate di populismo e trasformismo, in testa all’ordine del giorno e buone per ogni minestra, ricorrendo alle  quali secondo molti veloci osservatori si risolve tutto, senza spiegare mai niente sul loro vero significato e su cosa vogliamo dire. E ci aiuta la  costante e ansiosa ricerca di un centro politico diverso dalla destra e dalla sinistra, di cui però si tacciono  sempre i profili e le caratteristiche cultural-politiche,   superficialmente identificati con l’antisovranismo, l’antipopulismo e il non voto.

 

E però in questo modo che si perdono i contatti con il basso, ovvero con la “società concreta” direbbe Luigi Sturzo. Latitano infatti le analisi empiriche capaci di suggerire diverse cose e stimolare soluzioni condivise per il bene di tutti, alla luce di quello che passa il mondo di oggi è in prospettiva di domani.

 

Diciamo ancora meglio che è proprio cosi che si trascurano i rapidi cambiamenti. Quei cambiamenti che possono anche trasformare radicalmente i nostri abitudinari modi ideologici (e mentali) di intendere e capire la realtà della politica, dei partiti e degli uomini politici; di saper leggere e interpretare, in sostanza, la società cambiando opinione – perché no, mettendo fra parentesi i nostri pregiudizi ed evitando di ricorrere al trasformismo come sinonimo di malcostume e paradigma dei voltagabbana dai connotati camaleontici. Il cosiddetto trasformismo è anche questo, ma non è solo questo. Nasconde spesso coscienziosi mutamenti di opinioni e assunzioni di responsabilità storicizzate, come suggeriscono i “compromessi storici” e le Grandi Alleanze realizzati fra forze politiche diverse se non alternative.

 

Aggiungo che il disinteresse verso la “società concreta” è un vizio fatto proprio anche da buona parte dell’attuale giornalismo italiano – in particolare quello schierato –  per molti aspetti fazioso sui diritti umani e tuttavia padronale come mai prima d’ora.  Un giornalismo, potremmo dire, attento solo alla testata e agli editoriali “nemici”, per attaccarli e delegittimarli in un continuo gioco che sconta  la distanza dai fatti nudi e crudi giacché vive in esclusiva sintonia con le proprie convinzioni e con quelle della proprietà.

 

La società concreta

 

Le analisi correnti fanno a meno della “società in concreto”, percepita e valutata nei suoi profondi cambiamenti, nelle sue ancora sconosciute trasformazioni, nelle sue “metamorfosi”, come le definisce Bergoglio con un termine forte che fa pensare e riflettere molto. Ma è anche assente la voglia di “costruire” (il nuovo) e non di “ri-costruire” (il  vecchio), come ci raccomanda Sergio Mattarella.

 

Siamo di fronte a un vizio che disattende alcuni insegnamenti politici fondamentali. Proprio il sociologo Luigi Sturzo, sin dai primi anni del secolo scorso, suggeriva di rivolgere gli sguardi prima di tutto verso la “società…concreta e storica” e verso…”le forme di socialità esistenti, e cioè verso il mondo lavorativo reale, ai suoi tempi agrario e artigianale. Occorreva, in altri termini, conoscere la sua composizione, per essere in grado di aggredire le cause del diffuso malessere sociale, nonché i motivi delle crisi economiche, culturali e antropologiche. Secondo Sturzo, senza questa piena e responsabile  presa di coscienza qualunque discorso rimaneva privo di concretezza. Daltro lato è stato il Concilio a raccomandare di aprire sempre gli occhi verso “i segni dei tempi”, per poter discernere bene la storia e cercare così di  capire la società nella quale si e immersi e si vive.

 

Mi limito, in conclusione, a un solo esempio per far capire la differenza tra il dito e la luna. Noi verso il Movimento 5 Stelle abbiamo usato e usiamo espressioni generiche e precostituite. Le ho adoperate e forse continuo ad adoperarle anch’io. Se però leggiamo con attenzione le ricerche dell’istituto Cattaneo, scopriamo che l’identità dell’elettorato pentastellato scuote alcuni consolidati stereotipi. È un elettorato – ci dicono le statistiche – formato per il 56,9% da operai e liberi professionisti: esattamente 29,5 % operai e 27,4 % liberi professionisti. Inoltre, il 39,7% è costituito da credenti non partecipanti e praticanti: anche qui, per l’esattezza, 24,4% sono i credenti non partecipanti e 15,3% i praticanti. E ancora, il 34,5% proviene da Pd e Idv, mentre il 5,1% da Udc. Solo il 6,7% si definisce di destra. La domanda allora è scontata: perché questi dati? Perché forse – ma solo forse – sono gli elementi decisivi che ci spingono a comprendere più in radice quello che è successo negli ultimi anni nei partiti, nel substrato culturale dell’elettorato e nell’andamento dei flussi di voto.

 

Non basta adagiarsi sulle classificazioni di comodo.