Il dolore (fisico e morale) è elemento consustanziale alla politica, in particolare quando prevale il racconto personale, quando l’immagine in movimento narrativo decide tutto il resto. Le classi dirigenti cattoliche della Prima Repubblica avevano il peccato originale incorporato, si capiva osservandole che il presupposto del loro agire è sempre stato la Genesi: la mela dell’Eden fu mangiata, altro che. Loro mascheravano bene questa cruda nozione biblica, che si combina con la teologia della croce e della gloria, con lo spirito di servizio alla società e allo Stato, una specie di testimonianza, di martirologio politico. Lo aveva capito bene, tra gli altri, Leonardo Sciascia nel suo film “Todo modo”. La fine di Aldo Moro dopo i 55 giorni della prigionia e il suo epistolario, bellissimo, struggente, reso epico nella prosa del Papa amico che si rivolge “agli uomini delle Brigate rosse” fu il sigillo del dolore nella politica italiana e la prefigurazione dei dolori futuri che sarebbero puntualmente arrivati (“Il mio sangue ricadrà su di voi”).

Anche i comunisti, quelli italiani, conoscevano bene il dolore: la separazione originaria dall’umanesimo socialista, dal gradualismo riformista, la dottrina leninista e stalinista come doppio muro carcerario per Antonio Gramsci, la guerra interna, la caccia alle spie, la clandestinità, il tradimento dei libertari in Spagna, la “dittatura del proletariato”. Questi fecero da sfondo mitico all’epoca Repubblicana, quando le cose erano scarne e scarse ma si era pur sempre tra i partiti vincitori della seconda guerra mondiale, la tenda sotto cui si assembravano gli intellettuali e gli esponenti della buona borghesia colta e pensosa, sotto la protezione di quel rigo tratto sulla mappa europea al vertice di Yalta, molta agitazione sociale ma niente forche e dopo l’intervista di Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa, anche la protezione della Nato. Il tutto sempre con l’accompagnamento dei simpatizzanti del Pci, quelli che le mani non se le volevano sporcare ma le impastavano nella farina di un domani che cantava anche per loro.

Il dolore fu assiduo compagno di strada anche di Bettino Craxi, che veniva da una storia diversa, di minoranza autonomista, di isolamento all’interno del Psi, di discredito culturale a fronte dell’esito brillante dei pensieri sociologici della sinistra socialista, profetica e impotente. Craxi era un socialdemocratico e un riformista, quando queste parole sembravano insulti. Al centro della sua sofferenza politica vi era spesso il tradimento, l’accusa, l’ombra del sospetto, l’incapacità di farne, come avverrà in Amos Oz tanti anni dopo, l’onorificenza massima che un essere umano o animale politico possa conquistarsi. I miei idoli sono tutte figure da vigilia della caduta, gente da Triduo pasquale senza però la Risurrezione. Sono rischiosi simulacri della sconfitta imminente, sempre e comunque. La loro sopravvivenza è esclusa, non lasciano eredi. Come ha fatto, Bettino? Con il suo ceto di avvocati e di amministratori avidi di vita e di grano, con la sua banda di pokeristi che avevano alzato la posta e quasi a ogni giro gridavano “piatto”. Tutto ciò disperdeva l’accademia teorica della giovinezza. Craxi conosceva in politica il valore delle alleanze, forse meno quello delle amicizie. Apriva le porte del peccato, riformava il Concordato, a suo modo era Principe e Stato insieme.