Il dovere della coscienza, oltre l’ossessione per le riforme.

Domina la convinzione che il cambiamento esiga sempre un contrassegno legislativo: come se una riforma, una volta approvata, cambiasse il nostro modo di essere e di pensare, i nostri stili di vita. Serve altro. È la coscienza individuale e collettiva il vero discrimine tra il bene e il male.

Come siamo cambiati? Come viviamo? Quali speranze coltiviamo per il nostro futuro? Una prima osservazione riguarda lo straordinario progresso scientifico e tecnologico che ci ha offerto potenzialità di miglioramento un tempo impensabili. Le aspettative di vita sono esponenzialmente cresciute in quantità e qualità. Non si può non constatare, poi, con che peso e in che misura l’economia abbia influito sugli stili di vita e come la teoria della crescita illimitata, del benessere diffuso, dell’offerta di beni e servizi si stia misurando – in tempo di crisi – con la realtà, sollecitando riflessioni, valutazioni e consuntivi in ogni aspetto del vivere. Tuttavia, quando la gestione della ricchezza prodotta non è accompagnata da un solido fondamento etico si generano disuguaglianze, ingiustizie, nuove e crescenti povertà. La forbice tra sovrabbondanza e indigenza si sta divaricando sempre più e non è fuori luogo correlare questa tendenza con le azioni tardive della politica e dei governi, con la loro incapacità di riequilibrare questo crescente gap.

Soprattutto perché non si tratta di un fenomeno limitato a certe aree geografiche o alla differenza storicizzata tra paesi poveri e paesi benestanti.

Anche nelle più evolute civiltà occidentali si stanno generando nuove e inconsuete sacche di povertà emergenti, fino a modificare e a rendere labile, in termini di pensiero condiviso, la differenza tra ciò che è superfluo e ciò che è necessario. Ci sono le regole dei mercati, poi le politiche per governare il cambiamento, le leggi e le norme che a livello nazionale o sovrannazionale tentano di dare nuovi indirizzi ad una società globalizzata ed in continua evoluzione. Ma nel loro porsi in termini oggettivi queste derive che puntano sulla crescita e sul progresso, sul miglioramento delle condizioni di vita o nell’applicazione di nuovi principi di uguaglianza e di democrazia, non si traducono in automatismi applicabili tout-court, poiché devono misurarsi con privilegi lungamente radicati e con sentimenti soggettivi di condivisione, che dimorano nella consapevolezza interiore di ciascuno. Una nuova consuetudine si sta imponendo negli stili di vita e non sempre per scelta o volontà ed è una consuetudine antica, cui non eravamo più abituati da tempo: accontentarsi, un verbo fino a ieri espunto dal più utilizzato vocabolario quotidiano.

La nostra epoca è straordinariamente ricca di potenzialità, come mai accaduto in passato, sta a noi sostanziare l’essere e il cambiare con le categorie dell’uguaglianza, della democrazia, della libertà. Ma questo è un compito che ci riguarda tutti, non possiamo aspettare che ci venga suggerito o che tocchi a qualcun altro il dover ‘cominciare’ ad essere migliore. “Come vivere? Questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un anno, di un secolo o di un millennio, ma tutti i giorni quando svegliandoci dovremmo dire: oggi che cosa ci aspetta? Allora io considero che si dovrebbero fare le cose per bene, perché non c’è maggior soddisfazione di un lavoro ben fatto”. In queste parole di Mario Rigoni Stern stanno racchiusi molteplici interrogativi che riguardano la nostra esistenza: dalle scelte etiche, ai comportamenti quotidiani, da ciò che ci pertiene intimamente, agli stili di vita cui aderiamo, alla presenza degli altri, cioè del nostro prossimo, in qualunque progetto che riguardi il presente e il futuro. La risposta però si riassume in questa semplice affermazione – “fare le cose per bene” – ed ha una valenza universale perché è estensibile a tutto il genere umano.

La conclusione cui si può giungere ci riporta ad una considerazione etica del vivere, oltre le finanze virtuali, oltre le economie nazionali, i Pil, lo spread e le teorie della crescita e dello sviluppo. Il prevalente fattore generativo dei mutamenti in atto e di quelli a venire riguarda la concezione morale della vita, della dignità umana, del modello sociale di cui vogliamo essere parte e che possiamo, ciascuno con le proprie responsabilità personali, edificare. Questo discrimine non viene sancito per decreto, non esiste legge o norma che lo possa regolamentare in modo stabile, equo e duraturo, non può esserci sempre imposto o suggerito.

Assistiamo ad una corsa smodata nel proporre cambiamenti attraverso provvedimenti legislativi: come se una riforma, una volta approvata, cambiasse il nostro modo di essere e di pensare, i nostri stili di vita, in modo oggettivo. Tendiamo ad attribuire a queste enfatizzate riforme un valore palingenetico, ma l’oggettività di una norma che ne sostituisce un’altra non incide nella realtà delle nostre consuetudini se non diventa soggettività metabolizzata, convincimento interiore. I concetti di giustizia sociale, di uguaglianza, di merito, di redistribuzione dei beni e delle risorse, di tutto ciò che riguarda o può modificare nel bene o nel male il nostro modo di essere e di vivere, la stima di sé, la considerazione degli altri, il perseguimento del bene comune, ebbene tutto questo e altro ancora riguarda in modo intrinseco e imprescindibile la nostra coscienza. È la coscienza individuale e collettiva il vero discrimine tra il bene e il male. Valori, progetti, speranze, ideali: tutto va commisurato a questo fondamentale atto del pensiero che interroga la razionalità e il sentimento per rispondere in modo leale ed onesto, per sé e per gli altri, qui e altrove, a tutti gli incessanti quesiti della vita.