Gianfranco Angelucci, scrittore, regista e docente accademico, è uno dei massimi esperti dell’opera di Federico Fellini. In occasione dell’anniversario della nascita del grande regista romagnolo, egli ha pubblicato quest’anno un libro intitolato Glossario felliniano per “raccontare il genio italiano del cinema”. È una lettura di straordinario interesse per tutti, conoscitori approfonditi o distratti dell’arte felliniana, in quanto rivela fatti, anche poco noti, del suo percorso cinematografico e non solo. Un ritratto affascinante dal forte sapore intimo ed alchemico. Nel far ciò l’autore non risparmia la narrazione anche di innumerevoli, piccoli ma oltremodo significativi, episodi del suo rapporto umano e professionale, focalizzando l’attenzione del lettore nel magico personale mondo di Fellini. Dopo aver gustato la narrazione, dalla prima all’ultima pagina, ho sentito il desiderio di approfondire con l’Autore alcuni punti per avere una visione ancora più completa della lezione impartitagli dal Maestro. Ne è scaturita un’intervista di cui ripropongo testualmente il contenuto.

Un glossario … Come ti è venuta l’idea?

Il Glossario è stato concepito come una sorta di liturgia dell’Avvento per la ricorrenza del 20 gennaio 2020 data di nascita di Fellini e inizio del suo Centenario: un grande momento, una vera opportunità per l’Italia di raccogliersi, per una volta in armonia, attorno alla celebrazione del suo più grande artista del Novecento. Il Paese avrebbe potuto ritrovare di nuovo un vanto, una dignità, un’occasione di tripudio e una spinta di rinnovamento in nome del nostro autore cinematografico osannato in tutto il mondo, insignito per ben cinque volte con il Premio Oscar. Ma esiste anche una seconda ragione, che potremmo chiamare di marketing fatto in casa. Ormai il pubblico dei lettori è molto svogliato, giorno dopo giorno si è disabituato al testo scritto, ne diffida, preferisce rifugiarsi in comunicazioni più facili, passive, meno impegnative. Allora ho pensato che forse un glossario, cioè un prontuario rapido da aprire anche a casaccio, si ponesse in maniera più amichevole nei confronti del lettore, lo avrebbe aiutato a scardinare la resistenza, soprattutto tra i giovani che iniziano ad accostarsi spesso svogliatamente alla lettura. Mi è sembrato che raccogliere l’universo di un grandissimo artista come Fellini in una sequenza di capitoli autonomi potesse suscitare un interesse più giocoso e sollecitare la curiosità di chi entra in libreria, o ci affaccia alla rete in cerca di un titolo. Avrebbe facilitato l’accesso a una galassia sconosciuta ma allo stesso tempo a portata di mano. Il nome di Fellini infatti è universalmente famoso nel mondo perché è straripato dall’ambito cinematografico, ma la sua notorietà in realtà non corrisponde a una vera conoscenza dei suoi film. A quasi trent’anni dalla morte i suoi capolavori, che per noi rappresentano un valore eterno, non vengono quasi più visti, e così si disperde il loro valore artistico che è invece attualissimo. Adesso quando qualcuno mi confida di aver comprato il libro, di averlo letto e di aver avuto subito voglia di andare a vedere o rivedere i suoi film, la mia esultanza è incontenibile: era quella la mia autentica e principale intenzione, mi sento orgoglioso della mia scelta. Spero di contribuire con il mio Glossario a interrompere questo malaugurato vuoto di memoria che sta disgregando il tessuto culturale nella nostra epoca. 

Un Fellini in 50 voci? Qualcuno potrebbe obiettare che servirebbero cento, forse mille. 

Perché no: intanto però cominciamo da quelle. Lasciamoci coinvolgere da queste pagine che sono di natura narrativa più che saggistica. Il Glossario conduce in tanti porti in cui gettare l’ancora, a seconda della curiosità, dell’umore, dell’istinto, della scelta di ciascuno. In questo senso, può essere anche un portolano, una effemeride; il giornale di bordo di un viaggio a zonzo sui flutti di un racconto insieme vero e leggendario. Oppure una navigazione spaziale, all’interno di una nebulosa ancora in buona parte inesplorata, che ho voluto ripercorre con il cuore rivolto ai felliniani ma la mente piuttosto ai giovani, che avranno a disposizione una carta nautica attendibile per circumnavigare l’artista che ha cambiato le nostre vite, senza perdersi nelle secche dell’intellettualismo. Il testo è pensato per loro, mettendo a frutto anche gli anni di insegnamento nelle Accademie di Belle Arti che considero tra i più fecondi umanamente e intellettualmente. Condividere il sapere con creature in formazione è un’emozione irripetibile. Non c’era per me stanchezza che non si dissolvesse nel momento stesso in cui mettevo piede in aula, risarcendomi di un’energia che mi avrebbe sostenuto e accompagnato per tutto il resto della giornata. Anche questo segreto ho forse rubato a Fellini, la consuetudine con i giovani come metodo di bottega, prassi ancora praticabile nel mondo del cinema; Federico preferiva circondarsi di persone più giovani a cui dischiudere transiti abbaglianti nello scintillio del suo universo.

Il tuo libro inizia con alcune osservazioni di Georges Simenon. Tra tutte: “Fellini… una testimonianza scomoda, e davvero inquietante, dell’uomo di oggi”. Ritieni valida questa considerazione anche in relazione alla società odierna? In che senso?

Georges Simenon è stato il primo a intuire la portata rivoluzionaria del cinema di Fellini; si batté al Festival di Cannes per l’assegnazione del Palmares a La Dolce Vita, e parlò esplicitamente della scandalosa onestà artistica dei suoi film in grado di sovvertire ogni ordine e schema convenzionale. Aveva aggiunto nella sua potente dichiarazione: “Fellini ama l’uomo e non l’inganna”.  I progetti di Fellini, che avevamo in preparazione prima della sua prematura scomparsa, erano una meravigliosa, sbalorditiva anticipazione del cambiamento epocale che ci stava raggiungendo e forse travolgendo.  Non dimentichiamo che 8 ½  è il ‘poema’ del nostro tempo, come La divina commedia di Dante lo fu nel Trecento, o l’Orlando Furioso di Ariosto nel Cinquecento. Se nel Novecento l’Ulisse di Joyce era riuscito a imporsi come il racconto letterario dell’uomo contemporaneo, 8 ½ ne rappresenta per essenza il racconto cinematografico. Tuttavia il film va anche molto oltre, perché coniuga Shakespeare con Eliot e trasporta l’arte cinematografica ad estremi espressivi mai prima tentati e da cui sarà impossibile tornare indietro. Fellini introduce nel cinema l’anima (ASANISIMASA), la psicanalisi, il sogno, l’io narrante dell’autore, l’angoscia esistenziale, la religione e Dio, l’amante e la moglie, l’artista e l’uomo, il tempo fenomenologico di Husserl contrapposto alla semplice cronologia quotidiana; anticipa incredibilmente la teoria scientifica dei Quanti sullo spazio-tempo, applicata al mondo dell’arte, offrendoci un unico racconto in cui tutto si amalgama e convive senza forzature. Il film non è più una semplice storiella cinematografica, lo svolgimento più o meno brillante di una trama, ma l’evento artistico in grado di cambiare le prospettive e da cui non si potrà più prescindere in futuro, tanta è potente la sua innovazione. L’opera di Fellini segna lo spartiacque nella storia del cinema: c’è un prima di 8 ½ e un dopo 8 ½ : una volta apparso sugli schermi nulla è stato più uguale a prima.  

Durante la lettura si percepiscono intime riflessioni, profonda ed autentica amicizia ed ammirazione. Chi è per il tuo cammino nell’arte cinematografica Federico Fellini?

 Negli anni successivi alla scomparsa di Federico ho pubblicato alcuni libri sull’artista. In GLOSSARIO FELLINIANO appena uscito ho cercato di raccogliere il suo pensiero, la sua vita, la sua arte, e tutto ciò che ho appreso da lui nei molti anni fortunati in cui la sorte mi ha concesso di stargli vicino.  Dovunque mi chiamino mi reco a parlare del suo cinema con gioia immutabile, ogni volta ritrovando e rinnovando l’emozione di compiere insieme al pubblico l’immersione mentale capace di rendere più evidenti i segreti della tua creatività, di attingere passo dopo passo a quel filone d’oro che ci ha lasciato in consegna per meglio affrontare la nostra vita. Presto o tardi giunge inevitabile la domanda di qualche spettatore: “Che cosa ha appreso da Fellini?”  “Vorrà dire che cosa non ho appreso!” Mi verrebbe spontaneo ribattere, dal momento che ora, in vecchiaia, non riesco neppure a immaginare quale sarebbe stata la mia vita senza quell’incontro all’Hotel Plaza. Tutti noi fantastichiamo su le ‘sliding doors’; a me capita piuttosto di pensare a un invisibile ‘scambista’ che sta alle nostre spalle: ricordate quel ferroviere che una volta, all’uscita delle stazioni, tiravano a mano la lunga leva con cui avviare il treno sull’uno o sull’altro binario? Ecco, credo che ognuno di noi nella vita incontri il proprio scambista. Per me si materializzò nella figura di Francesco Arcangeli, il mio docente di Storia dell’Arte all’Università di Bologna che, quando andai a chiedergli la tesi, invece di assegnarmi un oscuro pittore del Barocco, mi dirottò inaspettatamente su Fellini. Rimasi lì per lì interdetto e obiettai: “Ma Fellini è un regista”. Non mi fece neppure concludere la frase: “No, è il più grande artista visivo del Novecento”.  Caro Federico, quando gli raccontai questo scambio di battute, non aveva reagito scherzandoci sopra, come inevitabilmente accadeva, con tempi brucianti, per qualsiasi affermazione capace di provocargli un turbamento: si limitò a increspare uno di quei suoi sorrisi timidi, sornioni, di immediata simpatia, e non replicò con un commento. Conosceva Arcangeli di nome e non lo stupì la sua intuizione, la sua ammirazione. Era al corrente dell’assoluta libertà di giudizio dello studioso: sul Corriere della Sera, scandalizzando la lobby intellettuale, Arcangeli aveva da poco scritto un elzeviro di elogio per un film di Eriprando Visconti, “La monaca di Monza”, infischiandosene del potentissimo e intoccabile zio Luchino! Momi Arcangeli fu dunque il mio scambista, né saprò mai, senza di lui, dove sarebbe andato a fermarsi il mio treno, che è invece approdato a Cinecittà, presso la ‘casa’ di Federico, la sua corte. Accanto al regista sono cresciuto alla vita, mi sono formato, mi sono plasmato nella conoscenza, nel mestiere e nel mondo del cinema. Non era tipo da impartire lezioni Federico, ma mi ha insegnato a mettermi in ascolto, mi ha accolto nella cella dell’Alchimista dove potevo carpire le sue formule, osservare ogni suo gesto.

Sei riuscito a raccontare creando una sorta di percorso a tre: Fellini, tu ed il lettore. Si percepisce una unità indissolubile in cui Federico F, citando il tuo libro del 2000, crea l’immaginario che diviene reale e la realtà si trasforma in ricordo. Una sorta di sceneggiatura della “visione”?

 È lo stile che identifica l’artista, il sigillo che lo distingue da chiunque altro e diventa lo specchio in cui chi guarda può riconoscersi. Nel cinema Fellini ha dispiegato per intero il proprio universo, che è anche miracolosamente il nostro: ciascuno vi si può riflettere, e in tal modo sentirsi assolto, meno solo, meno colpevole. Ecco la ‘santità’ dell’artista, il quale elargisce proprietà salvifiche e rassicura lo spettatore dicendogli: “Tutto ciò che ti capita è capitato prima a me, non aver paura di essere te stesso”. Nessuno come Fellini ci ha donato tanta profusione di libertà parlando di sé senza reticenze e pudori, senza autocensure, senza nascondersi, al contrario smascherando ogni mistificazione, ogni abuso del potere, ogni forma di autoritarismo, di distorsione ideologica.  Incurante di qualsiasi ‘scomunica’ aveva strappato senza alcun riguardo il bavaglio soffocante della Chiesa, aveva ridicolizzato il fascismo e i fascismi, aveva contrastato da solo la dittatura dei media prendendo letteralmente a calci, nell’ultima sua opera, il potente di turno che gli spezzettava i film nel tritatutto delle sue emittenti televisive. “Non si interrompe un’emozione”, aveva gridato al vento, perdendo la causa nei tribunali ma vincendola nell’opinione pubblica.  Rischiando da solo, senza alcuna solidarietà da parte delle associazioni di categoria, pur egemonizzate dai registi politicamente impegnati.  Non accettò la laurea ad honorem dall’Università di Bologna, perché – spiegò nel suo rifiuto – “mi sentirei come Pinocchio decorato dal Preside e dai Carabinieri per essersi divertito nel paese dei Balocchi (…) C’è una specie di capovolgimento delle regole che mi lascerebbe disorientato e scontento. È più forte di me. Sarei indotto a forzarmi in un ruolo, un comportamento, un atteggiamento mentale che non mi appartengono e che finirei per vivere con autentico malessere.” Voleva restare libero come quando, adolescente, sedeva nei banchi del liceo e disegnava la caricatura dei professori pretendendo oltretutto di essere applaudito per la sua impertinenza.  Fellini era principalmente un anarchico che amava l’ordine. Il suo cinema, con il solo strumento della poesia, è sempre rimasto fedele a quel medesimo spirito, e non si piegava a compromessi. Avverso alla stampella delle ideologie, lontano dallo strepito dei comizi, dall’inautenticità delle tendenze, dalle parole d’ordine, dai falsi profeti, dal pensiero unico di massa; il più individualista e apolitico dei registi, il più disimpegnato, scanzonato e imprevedibile, si esprimeva dischiudendo la porta al mistero e affidandosi alla voce dell’arte, l’unica che non potrà mai essere manipolata e adulterata, il cui messaggio è destinato a durare nitido e immutabile nel tempo.  “L’unico vero realista è il visionario” aveva ripetuto con assoluta convinzione, persuaso che la funzione più aristocratica della mente umana resti l’immaginazione. Sono certo che condividesse la massima di San Gregorio di Nissa: “I concetti creano gli idoli. Solo lo stupore conosce”.   

Hai lavorato con lui moltissimo, hai, tra l’altro, sceneggiato il film “Intervista”. Quanti personaggi singolari e quante “magie”. Anche il circo ed il clown, incarnazione per Fellini (“Io sono l’Augusto del mio Clown Bianco”) dell’ambivalente natura umana. Tra spiritualità ed analisi della società. Quanti aneddoti nelle tue 50 parole…  Qualche ricordo in particolare non ancora svelato?

 Un giorno, quando ormai il nostro rapporto si era consolidato e ci capitava di rimanere a chiacchierare da soli, non era infrequente che si creasse uno spazio propizio alle confidenze. Gli avevo così ribadito quanto fossi stato toccato più intimamente, tra i suoi film, da Il Bidone. Credo che lui lo sapesse già, lo aveva letto nella mia tesi e certo non gli era sfuggito. “Andiamo a pranzo” propose, lasciando cadere il discorso. Salimmo in macchina e mi indirizzò verso un ristorante di Monte Mario, sotto lo Zodiaco, in cui non eravamo mai stati. Esiste ancora, si chiama Il Bagatto (come la carta dei Tarocchi) e si apre su un’enorme terrazza, una visione a grandangolo di Roma, capace davvero di togliere il fiato. Pranzammo con del pesce. Parlava lui, io ascoltavo; aveva preso a raccontarmi della lavorazione del film Il Bidone e soprattutto di Broderick Crawford che era quasi sempre ubriaco. Mi riferiva gli scherzacci goliardici con cui l’americanone si divertiva a stuzzicare Franco Fabrizi, omosessuale mascherato da sciupafemmine, che poi andava a lamentarsi da lui raccontando per filo e per segno, con malcelato compiacimento, le molestie del collega. Mi aveva rivelato che i macchinisti erano stati costretti a costruire una specie di corsia di legno con palanche e cantinelle, in modo che Crawford, nei carrelli a precedere, potesse avanzare a favore della macchina da presa senza sbandamenti. Ma alla fine, aveva commentato con ammirazione: “Broderick era il vero attore americano che quando lo inquadri riempie tutto l’obiettivo: nessun altra faccia sarebbe stata in grado di restituire con altrettanta esattezza ciò che cercavo dal personaggio”. Ancora oggi ricordo il sole, l’atmosfera, e i dialoghi di quel pranzo, come se fosse ieri. Eppure mi era sfuggita la coincidenza più importante, la ragione nascosta per cui Federico mi aveva condotto in quel luogo. Se adesso rievoco l’episodio è soltanto per rimediare alla mia svista imperdonabile. Giorni fa, rivedendo Il Bidone nel DVD da poco uscito in edicola per il Centenario, ho riconosciuto il locale in cui Augusto, il capo dei bidonisti, travolto dalla tenerezza per la figlia (Lorella De Luca) incontrata per caso a Piazza del Popolo, la porta a pranzo con sé. Con un sobbalzo ho avuto la certezza che si trattasse del ristorante il Bagatto, che allora si presentava ancora come una semplice trattoria. Per chi non sapesse cosa significhi questa parola, il Bagatto è la prima carta degli arcani maggiori dei Tarocchi; è conosciuta anche come il Mago, il Giocoliere. Nei mazzi di più vecchia tradizione il Bagatto è rappresentato come un giovane artista di strada, un prestigiatore; su un tavolo portatile ci sono gli attrezzi del suo mestiere, ma lo sguardo è rivolto verso un punto lontano. In seguito il Bagatto è stato raffigurato più spesso come un artigiano intento a svolgere la sua arte nel proprio laboratorio, per poi evolversi nel Mago delle raffigurazioni cartomantiche contemporanee.   Ora, rimesse insieme tutte le tessere, il disegno mi sembra più chiaro, e capisco cosa volesse dirmi Federico. Questo era il solo suo modo di insegnare. 

Alcuni capitoli sono dedicati alle donne. Fellini era innamorato dell’Amore, specchio della sua natura? E Giulietta?

Il rapporto tra i due coniugi era inestricabile, un groviglio di radici annodate a profondità irraggiungibili. Inseparabili nell’arte e nella quotidianità nonostante le tante tempeste che si erano abbattute sulle loro esistenze. “La compagna di una vita, l’attrice dei miei film, mia moglie Giulietta Masina”, proclamò Federico Fellini dal palco del Dorothy Chandler Pavilion, dedicando il quinto Premio Oscar a sua moglie, di fronte a un pubblico televisivo di quasi due miliardi di spettatori. “And please, Giulietta, stop crying…” la esortava con un sublime colpo di teatro rivolgendosi direttamente a lei che, in prima fila, si scioglieva letteralmente in lacrime mentre l’intera platea, sull’esempio di Gregory Peck, si alzava in piedi per una frenetica standing ovation, un applauso commosso, caldo e prolungato. Era la fine di marzo del 1993, appena sei mesi dopo il regista avrebbe preso congedo. Il suo era stato un pubblico testamento. Non c’è stata donna o avventura, vera o presunta, che sia mai riuscita a mettere seriamente in crisi il patto infrangibile tra Giulietta e Federico, basato verosimilmente su un segreto rimasto a lungo sepolto e inviolato.  L’arcano sembrò dissolversi un pomeriggio in cui la signora Anna, per anni intima di Fellini, mi confidò senza alcun preavviso che Giulietta era una figlia illegittima, concepita dal padre con la domestica di casa; quella che l’attrice chiamava la sua balia. L’aveva appreso – mi rivelò la signora – da un avvocato, il proprietario dell’albergo di un paesino della Valsugana in cui andava ogni estate in villeggiatura. Non essendo figlia di sua madre, la bambina ad appena quattro anni era stata allontanata da casa e affidata a una zia di Roma.” Restai senza fiato: se la rivelazione fosse risultata autentica, avevamo finalmente in mano la chiave del mistero che aveva cementato l’unione tra Federico e Giulietta e che aveva generato da oscure ombre La strada. Quel capolavoro sconvolgente ed enigmatico aveva dischiuso a entrambi, quasi per una sorta di fatato risarcimento, il viale della gloria, della ricchezza, della popolarità, del consenso universale, durato ininterrotto fino alla loro morte. Avrebbero mai potuto Federico e Giulietta separarsi, avendo celato nel cuore quel segreto così scottante e gravido di destino?  Nel Glossario ci sono ben tre capitoli dedicati alla figura di Giulietta, ai segreti che la circondano, ai tanti misteri che ancora avvolgono la sua maestosa ‘figurina’ protagonista di alcuni capolavori impareggiabili e di due film insigniti del Premio Oscar. Ho scritto un libro su Giulietta che rivedrà la luce il prossimo anno in occasione del suo Centenario. Un appuntamento che oltre a celebrare degnamente una delle attrici più importanti del nostro cinema, possa servire anche a innalzarla in tutto il Pianeta a simbolo delle donne in grado di rialzarsi sempre, dopo ogni sopraffazione, violenza, angheria, prepotenza, abominio perpetrato nei secoli contro di lei. Cabiria è la donna che risorge e che nessuno riuscirà mai a piegare, meno che mai a distruggere, essendo portatrice di vita. Dei genetrix. Vorrei che insieme a Giulietta risuonasse la famosa affermazione di Fellini, pronunciata nel 1965, prima di ogni possibile femminismo, a commento del suo film Giulietta degli Spiriti:  «Nessun uomo sarà veramente libero finché non sarà libera anche l’ultima donna».

Quali sono i tuoi progetti futuri in ambito letterario e cinematografico?

Ho incontrato Federico quando ero poco più di un ragazzo, in occasione della mia tesi di laurea, gli sono stato accanto per un quarto di secolo e ora ho raggiunto l’età che aveva lui quando è morto. In venticinque anni di assidua, ininterrotta frequentazione, ho appreso da lui molto di ciò che c’è da capire della vita, dell’arte e anche dei libri, sì ho imparato a leggere i libri con un estro diverso, affrancato da ogni ricatto intellettualistico o accademico. Federico mi ha aperto lo scaffale più inebriante, quello della libera immaginazione, insegnandomi a vedere e riconoscere ciò che c’è dietro ogni rappresentazione. E mi sembra mio dovere, anzi un obbligo morale, restituire agli altri ciò che ho appreso dalla sua vicinanza. Alle 50 voci del Glossario Felliniano potranno seguirne altre, gli argomenti non sono certo esauriti e il continente Fellini offre continuamente nuovi spunti. Un critico amico e spiritoso mi ha scritto questo messaggio: “Numerosi fan, tra i quali il sottoscritto, promuovono un fondo di sostegno per l’estensione del tuo Glossario.” Il suo invito scherzoso giunge a proposito, lo considero di buon auspicio per continuare a occuparmi di Fellini anche dopo il Centenario. In questi mesi sto girando per conto dell’Istituto Luce-Cinecittà, una serie di dieci puntate su “I mestieri del Cinema”, raccontati attraverso l’opera di Federico Fellini. Tra i committenti c’è anche il Ministero della Pubblica Istruzione che, in occasione del Centenario Felliniano, ha voluto dedicare l’iniziativa agli studenti di ogni ordine e grado. Studiando Fellini, indagando il suo magistero, disinquineremo noi stessi e l’aria che respiriamo. Se la scienza ci rende consapevoli, l’arte ci rende liberi: auguriamoci che le due Muse non vadano mai disgiunte. Il nostro compito è cercare in ogni modo di realizzare i doni che ci sono stati assegnati gratuitamente, trasformandoli in una ricchezza per tutti. Solo questo conta, e si chiama cultura, la ricchezza più prodigiosa che possiede l’umanità, il passaggio del “testimone” da una mano all’altra in una staffetta che non avrà mai fine. Senza cultura saremmo ancora dei primati aggrappati ai rami degli alberi. Con la cultura, un passo alla volta siamo andati sulla luna, colonizzeremo presto altri mondi, ci spingeremo in galassie raggiungibili, e racconteremo tutto ciò con l’originaria poesia di Omero, il primo Aedo, incantando qualcuno che resterà ad ascoltarci a bocca aperta.