Negli ultimi giorni (dalla formazione del nuovo Governo) i rendimenti dei nostri titoli pubblici sono scesi sotto una soglia simbolica, per ciò che lo spread ha rappresentato nella nostra storia recente. Oggi il termometro del “rischio Paese” segna temperature ben più sopportabili di quelle di maggio 2018, quando si affacciò la prospettiva di un governo giallo-verde con le promesse di allora: tanto deficit in più sperando di produrre crescita, referendum sull’Euro, default verso la Banca centrale europea (che ha comprato debito pubblico italiano per centinaia di miliardi tramite la Banca d’Italia) e altre fughe dalla realtà. Ma, appunto, per la prima volta siamo tornati finanziariamente su uno spicchio di territorio del mondo di prima, quando quelle idee sembravano fuori gioco. “Italy is back to business”, come ha scritto di recente il Financial Times. In parte ha aiutato la stessa Bce, segnalando che darà ancora altro sostegno all’economia europea e forse riprenderà a aumentare i titoli di Stato in bilancio con un nuovo ciclo di interventi di “Quantitative Easing”. Che Christine Lagarde succeda a Mario Draghi a Francoforte è sembrato a molti rassicurante. Ma se siamo tornati nel mondo di prima, è anche perché i risparmiatori italiani e gli investitori internazionali iniziano a pensare che la stagione delle promesse impossibili sia finita. Quelle idee per il momento sembrano uscite di scena. Un indizio è che per la prima volta da più di un anno la posizione dell’Italia in Target 2, il sistema di pagamenti della Bce, è migliorata. Ciò significa che po’ di denaro dall’estero sta rientrando nel nostro Paese, proprio perché chi lo manovra spera che certe idee presenti nel governo o nella maggioranza siano finite fuori gioco. I mini Bot, minaccia di valuta parallela all’Euro, sono durati lo spazio di un mattino. Le proposte di assalto politico della Banca d’Italia sembrano (per ora) su un binario morto. In modo limitato ma indicativo, governo e maggioranza hanno persino accettato di congelare spese per circa due miliardi (parte all’Istruzione, parte alla Difesa, ma soprattutto incentivi e sostegni alle imprese) benché l’economia italiana sia sostanzialmente ferma. In sostanza, pur di far tornare i conti, il governo ha stretto la cinghia in piena fase di stagnazione del Paese: una versione più o meno diluita di quella stessa austerità che i partiti di governo demonizzavano fino a ieri. 

I mercati ora si aspettano che il governo in autunno eviti ulteriori salti nel buio. Vedono che il M5S, partito di maggioranza relativa, ormai è stabilmente nella maggioranza in Europa. Ma in un certo senso questi eventi certificano soprattutto l’affermarsi del ruolo di mediazione del Premier, Giuseppe Conte. Resta solo da capire un dettaglio, quale che sia la tenuta del governo giallo-rosso dopo la sua travagliata formazione. In ritirata il vecchio (almeno per ora), non è chiaro quale sarà il nuovo approccio dell’Italia nel quadro politico europeo mutato con l’arrivo di Ursula von der Leyen a Bruxelles. Perché qualcosa deve pur succedere: il Paese ormai viene da più di un anno di crescita zero, caso unico in Europa, e la Banca d’Italia nell’ultimo bollettino economico fa capire che anche l’ultimo trimestre è stato a marcia indietro. Tanti italiani soffrivano prima di questo governo e continuano a farlo, come dimostra il continuo aumento del credito al consumo per poter arrivare alla fine del mese.

La situazione non migliora dal punto di vista delle imprese. Nei sondaggi della Banca d’Italia gli imprenditori ritengono che a bloccare le loro decisioni di investimento è soprattutto “l’incertezza politico-economica”. Niente di tutto questo contribuirà a risolvere il problema fondamentale dell’Italia e del potere d’acquisto degli italiani: oggi un’ora di lavoro nel Paese in media produce tanto quanto vent’anni fa, mentre in Germania due terzi di più e in Francia o Spagna un quinto di più.

Siamo fermi, ma la novità è che mai come oggi i leader europei capiscono che questa è la chiave di lettura: l’Italia non ha squilibri finanziari da gestire con l’austerità, ma un enorme problema di crescita da curare liberando l’economia. Questo vuol dire Ursula von der Leyen quando invita a “non confondere l’Italia con la Grecia”. Non possiamo perseguire politiche di aumento del debito, ma possiamo avere una proposta credibile per spezzare il sortilegio della crescita zero. C’è molto lavoro da fare sull’amministrazione, sulla miriade di municipalizzate in perdita che non chiudono mai, sugli ostacoli alla libera iniziativa, la giustizia lenta e incerta, l’Università e la ricerca senza risorse: temi noti, eppure inspiegabilmente usciti dall’agenda del Paese. 

Addossare la crescita zero all’austerità ormai è una scusa pigra, perché l’Europa non la chiede più. Chiede solo di limare progressivamente il deficit, con un credibile piano di riduzione. Semmai, la prossima Presidente della Commissione Europea sarebbe felice di stringere un patto con l’Italia sulla base di idee credibili per una crescita sostenibile. Ai partiti di governo si presenta un’occasione d’oro per sviluppare una vera e propria “agenda Ursula” a favore dello sviluppo “green” e della sostenibilità. Speriamo non la sprechino.