Su “Rai Storia” per la rubrica “Il giorno e la storia” si raccontano fatti e date ricadenti in ogni giorno del calendario; interviene poi di volta in volta il Direttore di un quotidiano, che commenta a scelta sua una di quelle ricorrenze. Marco Tarquinio di “Avvenire” nella data di oggi – 25 Giugno – ha scelto di commentare gli indiani, il generale Custer e la Battaglia del Little Big Horn. Mi intendo abbastanza di pellirosse, avendo cominciato a vestirmi da indiano per carnevale quando tutti i bambini negli Anni ’60 erano cow-boy con le pistole con i fulminanti e le bambine delle principesse con il cono in testa.

La TV mandava western americani, c’era Rin Tin Tin, e tutti aspettavano che arrivassero i nostri. Gli indiani erano rappresentati come dei selvaggi primitivi e un po’ scimuniti, che attaccavano a casaccio con strumenti medievali. Bisognò aspettare il 1970 e Ralph Nelson con il suo “Soldato blu” per avere un racconto diverso. Pure del ’70 è “Il piccolo grande uomo”, di Arthur Penn, dove per la prima volta, seppure in maniera un po’ picaresca, viene ridicolizzato il mito del ‘famoso’ generale Custer e del suo ‘eroismo’ al Little Big Horn.

Oggi fra le date commentabili c’era anche la nascita di George Orwell, ma Tarquinio, secondo me con grande merito (è un segno di intelligenza, non si può sempre commentare Ustica, Solidarność, il Muro, eccetera) ha sterzato per pochi minuti la nostra attenzione sulla Domenica 25 Giugno del 1876 nel Montana; dando pure una prova di totale competenza storica su quel fatto, contro tutte le mitologie sostenute da Hollywood e propalate a tutto l’Occidente dopo il ’45. Perché un conto è la frontiera vera di Gary Cooper, in crisi di autorità nell’insuperabile “High Noon” del 1952, non a caso diretto da un austriaco (Fred Zinnemann) con la suggestiva colonna sonora di un russo (Dimitri Tiomkin, “Non mi dimenticare”), oppure gli ambienti epici di John Ford, e un altro la paccottiglia dei forti apache e degli apaches deficienti.

Tarquinio ha spiegato che George Armstrong Custer, chiamato generale, era in realtà un Tenente Colonnello, che portò allo sbaraglio tutto il Reggimento affidatogli, il 7mo Cavalleria, e che quel giorno sulle alture intorno al fiume Little Big Horn c’erano con Custer anche vari italiani, fra cui Charles DeRudio (nome americanizzato del bellunese Carlo Camillo di Rudio, tenente, che era fuggito dal carcere della Caienna dov’era rinchiuso per avere attentato [si dice] a Napoleone III).

Carlo di Rudio scampò anche alla Battaglia del Little Big Horn, dove tutti i 225 cavalleggeri di Custer (un narciso in pelle di daino che si riteneva imbattibile e che era già stato davanti alla Corte Marziale) furono obbligati (i comandi che aveva Custer erano altri) ad attaccare un raduno di diecimila Sioux, Cheyenne e Arapaho, con capi militari (altro che stupidi…) come Cavallo Pazzo e Gall, radunati politicamente da Toro Seduto (Sitting Bull).
Ma come ha detto Tarquinio, gli italiani lì presenti erano diversi, e soprattutto si salvarono tutti. Ovunque siano, gli italiani fiutano, magari all’ultimo momento, le trappole in cui gli rinchiudono vari stupidi in cui s’imbattono, non c’è generale americano che tenga.

Vale la pena di chiudere ricordando il trombettiere del 7mo Cavalleria, Giovanni Crisostomo Martini, di Sala Consilina (Salerno), chiamato John Martin. Visto che le cose si stavano mettendo male, Custer lo spedì a portare un messaggio scritto (non si fidavano del suo inglese) al Capitano Benteen, dicendogli di venire in aiuto velocemente (Be Quick) con munizioni (Bring Pacs). Ma era stato lo stesso Custer, per prendersi tutta la gloria, a separarsi dal reparto di Benteen, ed era tardi per rimediare.

Come spiega David Riondino nel suo pezzo teatrale sul trombettiere di Sala Consilina, il nostro partì pancia a terra con il foglietto infilato nel guanto. Alle 16 di quella Domenica di sangue consegnò il dispaccio, voltò il cavallo e ripartì verso Custer. Ma…, ummh, vede in lontananza un sacco di fumo e ode rumori poco simpatici, simili a crepitii di spari,… troppi spari (vuoi vedere che oggi i fucili li hanno anche gli indiani?). Sentì che ritornare lì poteva far male alla salute, e decise di aspettare un attimino. Morì a Brooklin – dopo aver fatto il più tranquillo bigliettaio della metropolitana di New York – a Dicembre del 1922.