Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giuseppe Lorizio

Il 5 maggio ricordiamo i duecento anni dalla morte di Napoleone Bonaparte e la Francia sta facendo i conti, non senza disagio ed imbarazzo, con una memoria, che chiede di essere purificata. Quale lettura/interpretazione teologica possiamo attivare in tale circostanza? Mi lascio guidare da uno scritto di Antonio Rosmini, che riproduce il panegirico di Papa Pio vii, pronunciato a Rovereto in occasione del trigesimo della morte del Pontefice (20 agosto 1823). Egli, esule ed umiliato, incoronò l’imperatore, il quale aveva scelto il millenario dall’incoronazione di Carlo Magno, come data evocativa e suggestiva per inaugurare il suo potere, con la benedizione della Chiesa. Ma quanta distanza regni fra la prospettiva della christianitas moedievalis e quella della modernità, si può facilmente scorgere dalle pagine rosminiane.

Il testo darà lavoro alla censura austriaca e lo studio dei brani censurati risulta di grande interesse per la storia della politica culturale dell’Impero asburgico nei confronti dei popoli sudditi agli albori del nostro Risorgimento e nei confronti della cultura cattolica più fedele al pontificato. La riflessione sulla storia più recente offre al giovane panegirista l’occasione di meditare — non senza la complicità di Joseph de Maistre — sul rapporto Chiesa/Mondo a partire da un elemento strutturale di quella che in seguito sarà definita la «società teocratica soprannaturale»: il pontificato. Se la prospettiva demaistriana è quella di una giustificazione apologetica del primato pontificio e del suo ruolo nella Chiesa e nella società, in termini di autorità suprema anche nei confronti delle sovranità temporali, nella linea teorica fondamentale del tradizionalismo, il Panegirico rosminiano viene a verificare storicamente, nella contrapposizione concreta, di cui è fresca la memoria, l’antagonismo tra le due città: l’una incarnata dal mite Pio VII , l’altra dal superbo Bonaparte.

Onde evitare il «servo encomio», tipico dei panegiristi cortigiani, il Rosmini compie un notevole sforzo di indagine storica per appurare i particolari dei momenti salienti della vicenda umana e politica del Pontefice che commemora. Una curiosa vicenda porta, ad esempio, alla cancellatura nel manoscritto di un passaggio nel quale plasticamente si esprimeva la contrapposizione fra i due regni. La scena è quella dell’incoronazione di Napoleone, il cui scenario prevedeva un trono di trentatré gradini per l’imperatore, mentre al Papa ne riservava uno di soli otto: «(…) nulla grava a Pio VII finalmente (mentre su tutto passeggia altissima la sua Sapienza) e comportare a Parigi l’incoronamento, e trasferirsi egli medesimo, e in quella cerimonia a Parigi, come in tutto il tempo che ivi fu, soffrire tacente [che chi incoronava in persona di Dio ascendesse otto gradi di un trono, per trentatré ascendesse un trono chi si incoronava: l’opposto di quanto i secoli precedenti, meno di scienza chiari e meno oscuri d’orgoglio, accostumavano e all’amplesso di pace] la vista dell’imperiale ambizione occupata e sollecita di gettar ombra su quella gran luce del sommo pontificato, onde per la troppa vicinanza temeva il geloso Sire venirne ecclissato».

Il Rosmini autocensura il riferimento ai due troni, dopo aver appreso dal Cappellari che in realtà nel presbiterio vi era soltanto il trono del Papa con otto gradini e che l’imperatore fu accompagnato su un grande palco, di circa trenta gradini, preparato in fondo alla cattedrale. L’epoca medievale e quella moderna risultano tuttavia molto ben disegnate nell’espressione cancellata, che esprime con molta chiarezza la posizione dell’Autore nei loro confronti.

L’intento che anima queste pagine non è tuttavia solo quello di proporre una biografia documentata del Pontefice, cui lo scritto è dedicato, ma anche quello di tracciare le grandi linee secondo cui si svolge il percorso della storia, a partire da un suo momento particolarmente significativo: l’«invisibile Provvidenza che a tutto sovrasta» non abbandona mai le redini delle vicende umane, neppure in frangenti drammatici, nei quali sembra «che dalla Gerusalemme celeste alle angosce della terrestre alcuna vena (…) di refrigerio» derivi. Di fronte al «Vero immutabile e sussistente» le umane vicende e l’esperienza stessa di Napoleone vengono ad acquistare una nuova luce. Crollate le impalcature dell’incoronazione parigina, al cospetto della divina maestà, a Bonaparte — celebrato come dio dai suoi panegiristi — non resterà che supplicare la misericordia del «Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola», mentre da parte dei discepoli del «magno Pio» non altro odio, non altra vendetta, che «il pensar bene di te [o imperatore!]». Un inno alla divina Provvidenza è allora questo opuscolo rosminiano, che in Pio VII ha operato per il bene della Chiesa.

Dopo aver intravisto la possibilità di un tribunale sovranazionale evangelicamente ispirato — quasi anticipazione di quello che si insedierà alla fine dei tempi — che sia per tutti i popoli garanzia di vera pace, il Rosmini conclude con una ormai famosa preghiera per l’Italia: «In quanto a me, per quell’incredibile affetto che a te porto, o Italia, o gran genitrice, innalzerò incessantemente questi devoti prieghi all’Eterno: Onnipotente che prediligi l’Italia, che concedi a lei immortali figliuoli, che dall’eterna Roma per li tuoi Vicarj governi gli spiriti, deh! dona altresì ad essa, benignissimo, il conoscimento de’ suoi alti destini, unica cosa che ignora: rendila avida di liberi voti e d’amore, di cui è degna, più che di tributi e di spavento: fa che in se stessa ella trovi felicità e riposo, e in tutto il mondo un nome non feroce, ma mansueto».