Il mondo cambia e cambia anche il lavoro | Il boom delle dimissioni volontarie. 

Perché lasciare un lavoro per cercarne un altro? Spesso è il tentativo di far coincidere la qualità della vita con il benessere personale. Cambiare, provarci, tentare è segno di insoddisfazione, ma anche ricerca di una sostenibilità messa a dura prova dall’usura delle esperienze di vita.

I dati forniti dalle comunicazioni obbligatorie trimestrali del Ministero del Lavoro offrono uno spaccato interessante e suscettibile di approfondimenti: nei primi 9 mesi del 2022 si sono registrate oltre 1,6 milioni di dimissioni dal posto di lavoro, con un più 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state computate oltre 1.3 milioni. Non si tratta peraltro di un fenomeno solo italiano, negli USA la deriva sta assumendo una dimensione tanto consistente da essere definita ‘Great resignation’, ‘le grandi dimissioni’. Per decenni politica, sindacato e associazionismo hanno posto il problema della carenza dei posti di lavoro come motore che innesca il volano dell’impoverimento e il blocco dell’ascensore sociale: analisi radicata negli anni e che permane, confermata ad esempio dal recente 56° Rapporto del Censis sullo stato di salute del Paese. Viene da chiedersi allora se esista un’analogia tra questa tendenza a sciogliere i legami con un’attività lavorativa e il più generale scollamento tra società e istituzioni, agevolato dal venir meno dei corpi intermedi, che il Direttore Generale dell’Istituto di analisi sociale, Massimiliano Valerii ha stigmatizzato come “ritrazione silenziosa dei cittadini”. Così come considerando questo disallineamento tra stili di vita prevalenti e fonti di produzione del reddito sarebbe utile rileggere La società signorile di massa di Luca Ricolfi, un libro che esamina  le contraddizioni tra Neet generation, vita di rendita, risparmio accumulato dai padri in un contesto in cui il numero dei cittadini che non lavorano ha superato ampiamente quello dei cittadini che lavorano, l’accesso ai consumi opulenti si è generalizzato raggiungendo larga parte della popolazione e la stagnazione economica è causa-effetto del declino della produzione. 

Last but not least, cioè ultimo riferimento ma non per importanza, l’insieme del mismatch socio-economico andrebbe parametrato con i dati emergenti dal 21° Rapporto Caritas che censisce 1.960.00 famiglie e un totale di 5.571.000 soggetti che vivono in condizioni di povertà. I dati statistici assumono un rilievo fondamentale a supporto delle analisi dei micro e macro fenomeni sociali e si pongono come zoccolo su cui dovrebbero innervarsi le politiche in tema di welfare e di lavoro. In questa fascia di target sociali ereditati o nuovi a motivo dell’emergente precarietà dell’esistenza il lavoro diventa un miraggio o un ripiego mentre – ad esempio – il reddito di cittadinanza è una misura compensativa ma indubbiamente da rivedere, ad evitare l’accomodamento e l’inazione.

Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni volontarie costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. Ma i dati indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: nei primi nove mesi del 2022 sono stati infatti 557mila i rapporti interrotti su decisione del datore di lavoro, contro i 379mila nello stesso periodo del 2021, con un incremento del 47% rispetto al periodo di vigenza del blocco. Nel terzo trimestre del 2022 le dimissioni sono state 562mila, con un aumento del 6,6% rispetto agli stessi mesi del 2021, mentre i licenziamenti– rapportati ai predetti periodi dei due anni- sono stati 181mila nel terzo trimestre 2022 con un più 10,6% rispetto al 2021. Il primato delle dimissioni volontarie sui motivi di chiusura di rapporto di lavoro suggerisce molte riflessioni di natura culturale, economica, di mera opportunità ovvero di necessità: a cominciare dal cercare un lavoro meglio retribuito, più gratificante dal punto di vista della soddisfazione personale o professionale, come pure dal dover conciliare i tempi lavorativi con le esigenze familiari. Si tratta di un fenomeno che si amplia e si diversifica nelle motivazioni soggettive (che inglobano certamente la ricerca di stili di vita sostenibili e gratificanti oltre che la realizzazione di aspettative elettivamente inespresse) e di fattori legati a dati oggettivi (tempo, distanza, disagi, trasporto, stress psicologici, spese, vincoli burocratici, gerarchie, competizioni, carenza di tutele). Dopo la fase emergenziale della pandemia si sono riaperti spazi di flessibilità e mobilità, a cominciare dallo smart working, ma è maturata la consapevolezza di un equilibrio tra vita privata e lavorativa che si ascrive alla più ampia deriva di un ritorno dell’individualismo come freno alle invadenze sociali, ne è prova il tema emergente dei cosiddetti ‘diritti soggettivi’ e delle libertà personali. 

In certi contesti territoriali e in taluni settori emerge anche la volontà di mettersi in proprio, il desiderio di provarci. In via generale la motivazione più ricorrente che spinge a lasciare un lavoro per cercarne un altro è legata al tentativo di far coincidere la qualità della vita con il benessere personale. In un mondo caratterizzato da una forte conflittualità di interessi e pulsioni si alza il livello di competitività che accorcia i tempi e la durata delle esperienze esistenziali, a fronte di una maggior durata media della vita: cambiare, provarci, tentare è segno di insoddisfazione ma anche ricerca di una sostenibilità messa a dura prova dall’usura delle esperienze e dalla stessa fatica di vivere. Ecco che il lavoro non è più solo un fattore strettamente economico poiché nei macro fenomeni sociali riemerge la necessità di un equilibrio psicologico come prevalente agente regolativo nelle alterne vicende della vita.