Il negoziato tra russi e ucraini conclude soltanto il primo capitolo di una storia ancora tutta da scrivere.

 

Putin è riuscito a portare avanti una politica estera aggressiva ed espansionista, approfittando anche della crescente riluttanza americana a battersi oltre confine.  Ciò condiziona non poco latteggiamento dei Paesi europei nei confronti dellattuale condotta di Mosca nel senso che lintransigenza forzata” di Biden potrebbe non essere più seguita, come sta dimostrando lintenzione di alcune capitali di calibrare le proprie posizioni per distinguersi da quella americana.

 

 

 

Giorgio Radicati

 

 

L’avvio di un negoziato di pace tra Russia e Ucraina, su territorio turco e con la mediazione dei padroni di casa, aveva subito suscitato soprattutto nell’opinione pubblica (in particolare europea) una ondata di ottimismo circa gli sviluppi della crisi. Era una impressione fondata non tanto sulla convinzione che il conflitto armato andasse esaurendosi, quanto sulla speranza che le negative conseguenze di cui era potenziale portatore (prima fra tutte il temuto impiego di armi nucleari) si fossero dileguate. In altri termini, si riteneva che per il solo fatto che le due parti avessero iniziato a discutere in presenza sui principali problemi all’origine della guerra, le armi potessero (anche se con gradualità) essere messe a tacere e un compromesso potesse essere raggiunto in tempi ragionevolmente brevi.

 

Purtroppo, è una storia a lieto fine che politici e analisti di varia estrazione e nazionalità non sono, per il momento, disposti a condividere alla luce di quanto si è prodotto di dannoso e, per certi versi, irreparabile (almeno nel breve e medio periodo) in oltre un mese di guerra. Ossia: la totale distruzione di città e importanti centri abitati; la morte di migliaia di persone (tra militari e civili); la fuga di quattro milioni di profughi (in gran parte verso l’occidente); le notevoli distorsioni economiche e finanziarie a livello globale generate dalle  sanzioni imposte alla Russia; le gravi ripercussioni politiche e militari prodottesi all’interno degli Stati Uniti, della NATO e dell’Unione Europea; lo stato di allerta (difficilmente reversibile) scattato un po’ dovunque in Europa e nel mondo e, infine, l’isolamento internazionale al quale Washington e gli alleati europei hanno voluto condannare la Russia di Putin.

 

Ciò detto, una attenta valutazione porterebbe a ritenere che l’avvio del negoziato consenta a Putin di prendere tempo per aggiornare i piani politici e militari iniziali, rivelatisi, in corso d’opera, non del tutto facilmente realizzabili. Infatti, Zelensky resta al potere con l’apprezzamento e la stima del mondo occidentale e non solo. Kiev si è rivelata inespugnabile e altre città hanno continuato a resistere con coraggio e determinazione ai devastanti bombardamenti da terra, cielo e mare condotti da forze armate preponderanti. Le truppe russe sembrano aver bisogno di riposo e di qualche opportuna rotazione, avendo subito perdite (anche in armamenti) superiori a quanto prevedibile. Le sanzioni economiche hanno inferto un duro colpo all’economia nazionale e necessitano di contromisure. Il prestigio della Russia nell’Occidente è sceso a livelli molto bassi. Infine, una nutrita schiera di oligarchi è stata duramente colpita nel portafoglio, minando probabilmente il sostegno che costoro avevano fino ad oggi assicurato al “neo Zar”.

 

Questi risultati farebbero ritenere l’“operazione militare speciale” russa quasi un fallimento, soprattutto se il negoziato non consentisse a Putin di limitare la forza politica ed economica dell’Ucraina, rendendola di fatto uno stato vassallo neutralizzato. Tuttavia, non è affatto irrealistico pensare che, dopo una necessaria pausa, egli possa portare, pur con i negoziati in corso, un nuovo ancora più violento attacco per conseguire militarmente quanto si era prefisso.

 

Nel frattempo, presumibilmente, Putin vorrebbe anche cogliere i frutti dell’offensiva diplomatica lanciata per sottrarsi all’isolamento, rafforzando i legami già esistenti con gli alleati e creandone di nuovi con i paesi tradizionalmente ostili agli Stati Uniti. A riprova di ciò i frenetici incontri che Lavrov ha avuto in questi giorni con i suoi omologhi iraniano, indiano e pakistano nonché la sua recente dichiarazione a Pechino accanto a Wang (“…i due Paesi parlano con una sola voce in materia di affari globali… ponendosi l’obiettivo di dirigersi verso un nuovo ordine mondiale…”). Al riguardo, appare evidente il tentativo di trasformare l’attuale ambiguità cinese (almeno di facciata) in aperto sostegno, non soltanto morale, alla Russia.

 

In realtà, (ad eccezione di Zelensky, interessato a veder terminare il conflitto presto e il più vantaggiosamente possibile) anche l’Occidente avrebbe bisogno di tempo. Gli Stati Uniti per mettere a fuoco la propria politica verso Mosca, sistemare meglio sullo scacchiere europeo le forze armate e verificare ulteriormente la solidità della “relationship” con le varie capitali. Gli Stati europei, invece, principalmente per saggiare l’orientamento di partiti ed opinione pubblica di fronte alla scelta fra potenziare gli armamenti (come sollecitato dalla NATO, su impulso di Washington) ovvero adottare una linea più flessibile e/o meno aggressiva (sostenuta con sempre maggiore forza da movimenti pacifisti, affiancati da intellettuali  non sempre filo putiniani), anche in considerazione degli incipienti problemi energetici legati alle forniture di gas e petrolio, del fenomeno inflattivo già in atto nonché della consequenziale probabile recessione economica.

 

Ecco perché, purtroppo, le conversazioni di pace in corso non sembrano destinate a concludersi in tempi brevi e con soddisfazione di tutti e tali resteranno almeno fino a quando i russi non accettino un “cessate il fuoco” ossia di interrompere la belligeranza per lasciare veramente il passo ad una diplomazia in grado di dirimere la difficile controversia.

 

In questa drammatica congiuntura, come più volte osservato, Biden non ha un compito facile, poiché deve riportare le truppe in Europa dopo l’isolazionismo americano degli ultimi anni, in un momento in cui i venti di guerra imperversano, le conseguenze della pandemia sono ancora presenti nelle due opposte sponde dell’oceano, le critiche repubblicane crescono con l’avvicinarsi delle elezioni congressuali di fine anno e il sospetto interessato coinvolgimento del figlio in una vicenda dai contorni ancora poco chiari circola insistentemente sui media.

 

Egli deve, inoltre, fare i conti con la sua immagine pubblica scalfita da una serie di “gaffes”, al limite tra pettegolezzo e politicamente scorretto, di cui continua a rendersi protagonista. Del resto, sembra che a lui nulla possa essere perdonato e che ogni sua esternazione travalichi i limiti di quanto comunemente consentito. Aver, di recente, definito Putin un “macellaio”, un “assassino” e non meritevole di “restare al potere”, con allusione ad un possibile “regime change” in Russia (peraltro, prontamente smentita dal suo staff), lo ha immediatamente reso bersaglio di innumerevoli critiche, in patria e fuori, anche da parte di coloro che hanno fatto finta di dimenticare che, negli anni ’80, Ronald Reagan aveva coniato per l’Unione Sovietica l’appellativo ”Impero del Male”, senza con questo attirare su di sé alcun commento malevolo…. E’ evidente cioè che, pur potendo vantare un “cursus honorum” di tutto rispetto, il presidente venga ormai giudicato un “decisionista tentennante”, forse non più all’altezza di rappresentare l’America più forte e più fiera, quella cioè sempre in grado, per definizione, di schiacciare all’angolo l’avversario.

 

Del resto, è innegabile che, sotto la sua presidenza, gli Stati Uniti stiano dando l’impressione di non riuscire a togliersi di dosso l’immagine di un paese in grave difficoltà in numerose aree del pianeta, dove tradizionalmente la presenza americana ha sempre contato notevolmente. Si arriva al punto che – pur essendo ancora oggi la più forte potenza planetaria in termini economici e militari – l’America possa essere minacciata dalla Russia sul piano nucleare con un flagrante rovesciamento della situazione esistente dal dopoguerra fino ad alcuni anni orsono, quando cioè era Mosca a temere di sfidare la forza atomica statunitense.

 

Ovviamente non tutto ciò è imputabile a Biden. Putin è riuscito a portare avanti una politica estera aggressiva ed espansionista, approfittando anche della crescente riluttanza americana a battersi oltre confine (sia per gli interessi propri che, men che meno, per quelli altrui) sull’onda della dottrina “America first” lanciata da Trump e però pedissequamente applicata, in maniera improvvida e precipitosa, proprio da Biden in Afghanistan.

 

Questa situazione condiziona non poco l’atteggiamento dei Paesi europei nei confronti dell’attuale condotta di Mosca nel senso che l’intransigenza “forzata” di Biden potrebbe non essere più seguita, come sta dimostrando l’intenzione di alcune capitali di calibrare le proprie posizioni per distinguersi da quella americana.

 

In ultima analisi, il fenomeno rischia di essere la breccia entro la quale Putin potrebbe inserirsi nel tentativo di incrinare il fronte occidentale, che si è fino ad oggi innalzato a baluardo contro le sue mire espansionistiche e destabilizzanti. Con conseguenze, al momento, del tutto imprevedibili.

 

Giorgio Radicati, Ambasciatore