Il nuovo Pd con due Manifesti? Così sarà un Giano bifronte.

Il Manifesto del 2023 abroga quello del 2008 o si limita ad integrarlo? Non si sa. Aumentano perciò i dubbi su quale sia la reale anima del Pd. Al momento sembra un partito che dal non avere una chiara identità è arrivato ad averne persino due. Ma quanto può durare questa ambiguità?

Luca Castelli

La conclusione della prima fase del cosiddetto percorso costituente, con l’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale del “Manifesto per il nuovo Pd – Italia 2030”, fornisce l’occasione per svolgere qualche considerazione sul merito di questo documento, specie alla luce del confronto con il precedente Manifesto del 2008, nonché sul rapporto che si è venuto a creare tra le due Carte. Sul piano formale si tratta di un testo di 13 pagine, divise in 5 capitoli, rispetto alle 11 pagine e ai 7 capitoli del Manifesto originario. In continuità con il passato, dunque, si conferma la scelta per una Carta dei valori “lunga” e non “breve”, com’è invece il Party Credo dei Democratici americani, che consta di appena 34 righe ed è incorporato nello statuto del partito.

Il che naturalmente non fa altro che accentuare i margini di indeterminatezza già di per sé propri di ogni carta di principi. Ed infatti il Manifesto del 2023 contiene concetti talmente vaghi e generici che riesce davvero difficile, a prima lettura, non condividerli. Come dissentire, ad esempio, quando si dice che «non può esistere una crescita duratura senza la lotta alle diseguaglianze»; che «lavoro, istruzione e sanità pubblica sono i pilastri di un modello sociale che mette al centro la persona e i suoi diritti fondamentali»; che «pretendere che chi è stato lasciato ai margini debba cavarsela da solo significa tradire e umiliare chi avrebbe più bisogno d’aiuto»; che «democrazia e umiliazione non stanno insieme». Così come senz’altro condivisibile è il richiamo al lavoro dignitoso, all’inscindibilità tra diritti civili e diritti sociali, alla valorizzazione degli strumenti di giustizia riparativa, all’esigenza di prendersi cura delle persone garantendo che la loro dignità sia rispettata.

Anche la parte più istituzionale merita un generale apprezzamento. Si rifiuta la scorciatoia del presidenzialismo; si afferma la necessità di regolamentare i partiti dando finalmente attuazione all’art. 49 Cost.; si valorizza il carattere cooperativo e solidale del nostro regionalismo, il principio di sussidiarietà orizzontale, il ruolo fondamentale dei sindaci e degli amministratori locali quali soggetti che “operano in corsia” e sono il primo punto di riferimento per i cittadini. Ma soprattutto, si insiste sulla capacità delle nostre istituzioni di prendere decisioni in grado di cambiare la vita delle persone. Dunque, una democrazia decidente come antidoto contro i rischi del democratic backsliding, dell’involuzione dello Stato di diritto. Ad un più attento esame, tuttavia, gli elementi di discontinuità con il Manifesto del 2008 sono evidenti. A cominciare dalle parole che prima c’erano ed oggi non ci sono più. Come la parola merito, da riferire ai talenti che tutti devono avere la possibilità di sviluppare, nonostante le diverse condizioni di partenza, all’interno di una scuola che educa e non discrimina. Una lacuna, questa, che nel centenario di Don Milani fa un certo effetto.

Non c’è più il riferimento all’affermazione di un nuovo umanesimo né sul piano dell’accesso al sapere, né sul terreno dell’integrazione europea. L’esigenza di anteporre l’essere umano concepito nella sua totalità sembra invece soppiantata dal riferimento preponderante alla sola dimensione dell’uomo lavoratore. Il termine doveri, declinato accanto a quello di diritti, compare solo una volta e solo con riguardo agli italiani che vivono all’estero rispetto ai connazionali residenti in Italia. E questa scissione tra la dottrina dei diritti e quella dei doveri fa il paio con il rilievo accordato all’autodeterminazione delle persone, che è concepita come «la bussola di ogni nostra azione» ed affermata in termini assoluti, senza alcun senso del limite. Scompare poi ogni richiamo alle culture fondative del PD. Nella Carta del 2008 si parlava, per quanto genericamente, di un partito che raccoglie «le tradizioni culturali e politiche riformatrici del Paese». L’obiettivo non era mettere insieme pezzi del passato, ma elaborare una visione condivisa del mondo attraverso la reciproca contaminazione di quelle storie per costruire una nuova idea di Paese.

Di queste radici e quindi della natura intrinsecamente plurale del partito, come casa comune di tutti i riformisti, nel nuovo Manifesto non c’è traccia. Non stupisce, pertanto, che neppure le parole riformismo o riformista vengano mai adoperate. Non solo. «Bisogna fare un’Italia nuova» esordiva il Manifesto originario e rispetto a questo obiettivo sviluppava poi i suoi intendimenti, in una prospettiva chiaramente rivolta al Paese. Il Manifesto odierno, invece, esibisce un orizzonte di più corto respiro, perché sembra parlare più al partito che al Paese. Frasi come «il cuore della nostra identità è la lotta contro tutte le forme di diseguaglianza»; «siamo e saremo un partito femminista»; dobbiamo «agire con ben più coraggio e determinazione di quanto abbiamo fatto finora»; vogliamo che «chi fa vivere ogni giorno il partito sul territorio pesi di più nelle scelte che saremo chiamati a fare» tradiscono un’impostazione di fondo rivolta prevalentemente a correggere errori o omissioni dei quindici anni passati. Insomma una visione più introversa, fortemente condizionata dalla contingenza, che non riesce a sprigionare quella spinta propulsiva e quella proiezione al futuro che animavano invece il precedente Manifesto. Da questo punto di vista, in effetti, il richiamo all’Italia 2030 appare puramente formalistico, oltre che collegato alla sola emergenza climatica.

Ma ciò che più distingue i due Manifesti è, ovviamente, il diverso contesto politico, economico e sociale che ha fatto loro da sfondo. Il documento del 2008 nasce in un momento storico segnato, sul piano economico, dalle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione; su quello politico dall’assetto bipolare del sistema dei partiti.  Di qui, da una parte, la missione del Pd di «ricollocare l’Italia negli inediti scenari aperti dalla globalizzazione» e di «rispondere alle nuove sfide della mondializzazione»; dall’altra, la vocazione maggioritaria, cioè «il suo proporsi come partito del Paese», che pensa la propria identità «non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea». Dal 2008 ad oggi è cambiato il mondo. E il nuovo Manifesto ne prende atto, sottolineando che «le crisi finanziarie, la pandemia, il ritorno delle tensioni internazionali e la crisi energetica ci hanno drammaticamente mostrato i limiti del modello di interdipendenza globale che ha caratterizzato l’inizio di questo secolo».

Ecco allora l’enfasi sul «cambio di paradigma», locuzione ribadita ben quattro volte; sull’art. 3, citato quattro volte; sulla lotta alle diseguaglianze, richiamata tre volte. Ecco l’esigenza dell’«azione complementare strategica di uno Stato regolatore e innovatore […] in grado di orientare la dinamica dei mercati, inclusi quelli finanziari, verso gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile che metta al centro la persona, difendendone i diritti, la libertà e la dignità, indipendentemente dal luogo di nascita o di provenienza». Ecco, infine, il ridimensionamento della vocazione maggioritaria, che viene appena accennata e riferita, anzitutto, «agli interessi dell’intero sistema democratico» oltre che «ai soli interessi di rappresentanza della propria parte». Rispetto al testo del 2008 c’è una completa inversione a U. Lì si leggeva, infatti, che «compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare le condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità».

Certo, a guardarlo con gli occhi del presente neppure quel Manifesto era esente da limiti. Ad esempio, l’idea che lo Stato debba limitarsi al ruolo di regolatore, oltre che di erogatore dei servizi pubblici essenziali, è ormai superata. Al giorno d’oggi lo Stato è tante cose insieme: promotore, garante, gestore, investitore, ecc…Ma il problema, ieri come oggi, è quello di evitare, da una parte, un’illimitata espansione dell’intervento pubblico che finisca per comprimere le opportunità offerte dai mercati; dall’altra, l’attuazione di politiche che frenino il cambiamento anziché indirizzarlo per il verso giusto. Su questi temi, che chiamano in causa l’approccio di allora, un vero dibattito dentro il Pd in tutti questi anni non c’è mai stato. Ed allora concentrarlo in soli tre mesi restituisce inevitabilmente l’impressione di un’operazione più finalizzata ad un obiettivo politico immediato – il rientro di Articolo 1 –, che non volta ad un ripensamento funditus delle basi teoriche su cui poggia la piattaforma politico-programmatica.

Come che sia, alla luce della comparazione svolta, la conseguenza è oggettivamente quella di uno spostamento a sinistra del baricentro del partito. Il punto di equilibrio su cui si basava il patto fondativo del 2008 è rimesso in discussione. La cesura è netta. A questo punto viene da chiedersi: ma se il Manifesto rappresenta la “Costituzione” del partito sul piano dei valori, è necessario cambiare la Costituzione ogni volta che cambia il contesto di riferimento? Se fra quindici anni lo scenario muterà di nuovo bisognerà scrivere un altro Manifesto? In realtà la Costituzione è per sua natura destinata a durare nel tempo, va aggiornata alla luce dei mutamenti che nel frattempo intervengono, ma non certo riscritta ogni volta da capo a piedi. Allora sarebbe stato più opportuno distinguere il piano dei valori fondativi da quello delle linee programmatiche dell’azione politica e agire prevalentemente su quest’ultime, modificando cioè le policies da mettere in campo per rispondere alla crisi e non i principi, che come tali sono suscettibili di essere variamente interpretati e modulati a seconda delle diverse condizioni di contesto.

Invece si è scelto di redigere un nuovo Manifesto, anziché intervenire in modo mirato emendando singole parti di quello originario. Il che pone l’ulteriore problema della convivenza tra il vecchio e il nuovo testo.  Quello del 2008 non viene soppiantato, ma resta accanto al nuovo, che tuttavia è da subito valido e cogente. Ma allora che rapporto c’è tra le due Carte? Il Manifesto del 2023 abroga quello del 2008 o si limita ad integrarlo? E quale prevale in caso di conflitto? Come si vede un bel dilemma, la cui soluzione è affidata agli esiti del congresso. Il che non fa altro che aumentare i dubbi su quale sia la reale anima del Pd. Il Pd è quello del 2008 o quello del 2023? Al momento sembra un partito Giano bifronte, che dal non avere una chiara identità è arrivato ad averne persino due.  Ma quanto può durare questa ambiguità? Sembra difficile accontentarsi della mancata archiviazione del Manifesto fondativo, finché non si chiarisce se il mutamento che è avvenuto nel codice genetico del Pd – che in quel Manifesto era iscritto – è definitivo oppure no.

Luca Castelli, professore associato presso l’Università di Perugia, è stato relatore al convegno promosso recentemente da Pierluigi Castagnetti all’Istituto Sturzo (19 dicembre 2022).