Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

Stando ai dati ufficiali, la povertà nel mondo sta diminuendo in modo significativo, con la sola eccezione dell’Africa sub-sahariana. Si tratta di una materia estremamente complessa che merita un’attenta disamina, sia in riferimento ai dati globali, come anche per quanto concerne, nello specifico, la cosiddetta «Black Africa». Andiamo dunque per ordine. La soglia si è sicuramente spostata rispetto al passato, anche se poi le cifre e le percentuali impongono un’attenta esegesi dal punto di vista dei significati. Secondo la Banca mondiale (Bm) oggi nel mondo una persona su dieci è in condizioni di estrema povertà, vale a dire che sopravvive con meno di 1,90 dollari al giorno. Si consideri che nel 1990 erano due miliardi su una popolazione mondiale allora di 5,3 miliardi di persone. Ciò non toglie che in un’epoca in cui il tasso di povertà tocca il suo minimo storico, sarebbe troppo riduttivo ritenersi soddisfatti e sottovalutare le sfide che incombono anche perché oggi vi sono ancora, pur sempre, tre miliardi di persone nel mondo che devono sbarcare il lunario con 5,5 dollari al giorno.

In effetti, a una lettura più approfondita, dalle statistiche sulla povertà diffuse dalla Bm, emerge un dato che mette in una diversa prospettiva anche i miglioramenti del passato. Infatti, la diminuzione del numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è in gran parte dovuta all’aumento di quelli che si collocano appena sopra questo limite. In sostanza, secondo l’economista Martin Ravallion della Georgetown University’s Center for Economic Research, «c’è stato un piccolissimo guadagno assoluto per i più poveri, perché l’aumento del livello della base negli ultimi 30 anni circa è di gran lunga inferiore alla crescita del consumo medio».

Guardando alla povertà in termini assoluti piuttosto che in termini comparativi risulta che «la gran parte del progresso vissuto dai paesi in via di sviluppo rispetto alla povertà — spiega Ravallion — è consistita nel ridurre il numero di persone che vivono in prossimità del livello minimo del consumo, piuttosto che aumentare il livello dei consumi, e in questo modo si può dire che i più poveri sono stati effettivamente lasciati indietro». Un quadro complessivo che trova conferme anche nel rapporto 2019 Oxfam, che evidenzia come l’aumento della disparità di reddito in molti paesi del mondo escluda gran parte della popolazione dai benefici della crescita economica e la disuguaglianza sia in aumento. Una situazione decisamente drammatica che ha visto nel solo arco di un anno solare la ricchezza dei miliardari del mondo aumentare di 900 miliardi di dollari (pari a 2,5 miliardi di dollari al giorno) mentre quella della metà più povera dell’umanità, composta da 3,8 miliardi di persone, si è ridotta dell’11 per cento. Per chiarire meglio lo “stato dell’arte”, basti pensare che tra il 2017 e il 2018 i miliardari sono aumentati al ritmo di uno ogni due giorni e che 26 ultramiliardari possiedono oggi la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale.

È dunque evidente che qualcosa non funziona nell’economia planetaria: chi si trova all’apice della piramide distributiva continua a godere in maniera sproporzionata dei benefici della crescita economica, mentre un numero indicibile di persone vivono in condizioni di estrema povertà nei bassifondi del mondo.

L’Africa sub-sahariana è quella parte del mondo che è messa peggio, continuando a essere in assoluto l’area geografica dove l’indigenza aumenta in modo preoccupante con 400 milioni di persone che sopravvivono ancora con meno di due dollari al giorno: in pratica, più del 40 per cento dei poveri del mondo si trova lì. Proprio in questa parte del mondo, stando agli ultimi dati, il 37 per cento delle persone non usufruisce di acqua potabile; il 65 per cento non ha accesso all’elettricità; i bambini rischiano di morire entro il quinto anno di vita; il parto stesso talora è causa di morte per le partorienti e il tasso di fecondità è di 7 figli per donna.

D’altronde, è sufficiente dare un’occhiata alla classifica dello Hdi (Human Development Index) redatta nell’ambito dello United Nation Development Program da cui si evince che nelle ultime dieci posizioni, non a caso, troviamo dieci paesi africani: Mozambico, Liberia, Mali, Burkina Faso, Sierra Leone, Burundi, Ciad, Sudan del Sud, Repubblica Centrafricana e Niger, che chiude al 189° posto. Bisogna ammettere che lo scenario è a dir poco inquietante se si considera che l’Hdi viene quantificato calcolando tre fattori ritenuti essenziali: l’indice di aspettativa di vita (che considera l’aspettativa di vita alla nascita), l’indice di istruzione (considerando gli anni medi di istruzione e quelli previsti) e l’indice di reddito (ovvero il reddito nazionale lordo, che include tutti i redditi percepiti dai cittadini del Paese in questione).

Prendiamo ad esempio il caso del Niger, un paese che dal punto di vista delle commodity (materie prime) potrebbe davvero essere un Eldorado. Pur disponendo di immense risorse minerarie ed energetiche strategiche come l’uranio, l’oro e il petrolio, si trova all’ultimo post per sviluppo umano e al 146° posto — su 197 — per pil, che ammonta a 8,12 miliardi di dollari. E cosa dire della Repubblica Centrafricana le cui ricchezze vanno dal petrolio all’uranio, oltre ai diamanti presenti nei grandi depositi alluvionali delle regioni occidentali del Paese; per non parlare dell’immenso patrimonio boschivo nazionale. Sta di fatto che questo Paese ha un pil che si attesta attorno ai due miliardi di dollari: un vero e proprio paradosso economico che mette in evidenza la connessione tra gli interessi delle compagnie straniere nei confronti delle commodity e la povertà oggetto della nostra riflessione.

Se da una parte in questi paesi si registra l’abbondanza di determinate risorse naturali, dall’altra si genera spesso un eccesso di esportazioni a costi irrisori, a danno della produzione interna e dell’industrializzazione. Una fenomenologia che trova nella corruzione un fattore altamente destabilizzante, con il conseguente indebolimento delle istituzioni locali, il rifiuto dei principi fondamentali di contabilità del bilancio statale e un elevato tasso di disuguaglianza. A questo proposito è illuminante la riflessione di uno studioso britannico, Mick Moore, il quale ha ampiamente dimostrato come più uno Stato dipende da quelle che egli chiama «entrate immeritate» — risorse che non richiedono un grande impegno amministrativo, come il petrolio e altre risorse naturali — meno quello Stato tende a servire i propri cittadini. Tali guadagni facili, infatti, incoraggiano lo sviluppo di forme di governo non certo trasparenti e l’affermazione della corruzione come una sorta di istituto occulto nelle concessioni. Ecco che allora lo Stato stesso diventa un obiettivo sensibile per i parassiti interni o esterni che siano, come i cosiddetti «signori della guerra» e le compagnie estrattive transnazionali.

Una riflessione analoga è quella dell’economista Daron Kamer Acemoğlu e del politologo James Alan Robinson, che hanno pubblicato nel 2012 un interessante saggio intitolato Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty. Essi spiegano con grande chiarezza che, nel tempo, si sono configurate delle vere e proprie «istituzioni economiche estrattive» che hanno privato le popolazioni autoctone di qualsiasi tipo di incentivo o servizio, concentrando il benessere nelle mani di un manipolo di nababbi. Ma il colmo sta nel fatto che i Paesi produttori di materie prime, per le ragioni di cui sopra, nonostante la loro potenziale ricchezza, presentano spesso tassi di crescita procapite e un tenore di vita medio molto bassi rispetto addirittura a certi Paesi poveri o comunque sprovvisti di materie prime. Lo rileva l’«Extractive Industries Transparency Initiative» (Eiti), un progetto di regolamentazione e responsabilizzazione in materia di estrazione di petrolio, gas e minerali. Il protocollo Eiti impone la divulgazione di informazioni lungo l’intera filiera, dal punto di estrazione al modo in cui si distribuisce la ricchezza che ne deriva e, soprattutto, al modo in cui i governi trasformano i profitti in vantaggi per la popolazione. L’iniziativa, nata nel 2003, è rivolta a tutti i Paesi che vogliono migliorare la propria gestione delle risorse naturali, rendendone trasparenti i processi e i proventi derivanti dal loro sfruttamento. Il quadro normativo di riferimento (standard Eiti) viene oggi implementato da 52 paesi e da oltre 60 società di estrazione e commercializzazione e sostenuto da 400 organizzazioni della società civile. Grazie all’iniziativa sono stati dichiarati 2500 miliardi di dollari americani versati ai governi dei Paesi estrattori da parte delle imprese di materie prime. Per quanto riguarda la pubblicazione dei flussi finanziari dalle società di estrazione e commercializzazione ai governi, certamente sono stati compiuti progressi tangibili, anche se l’adesione, tuttavia, è ancora parziale. La trasparenza è certamente un rimedio, perché sollecita chi di dovere a rendere conto del proprio operato, anche perché, come ha ben spiegato Papa Francesco nel corso della sua visita in Madagascar, «la povertà non è una fatalità».