Possiamo ancora definire la comunità dei democratici della Calabria come partito “democratico”? Questo è l’interrogativo che attraversa l’articolo. L’autore, già parlamentare della Dc e sindaco di Cassano allo Ionio, affronta con realismo la crisi del Pd in una regione che stenta a riconoscersi in una nuova e robusta classe dirigente.

Giuseppe Aloise

Sul retro della copertina dell’ultimo pregevolissimo lavoro del prof. Luciano Canfora dal titolo “La democrazia dei signori” si legge testualmente: “Un assetto politico resta democratico anche quando il “demo” se n’è andato? o si trasforma in una democrazia dei signori?”. Restringendo l’osservazione al Partito democratico calabrese, anche alla luce delle ultime vicende congressuali vissute all’insegna dell’“andiamo al congresso” come prospettiva liberatoria e rigeneratrice, possiamo ancora definire la comunità dei democratici della Calabria come partito “democratico”? oppure siamo in presenza di una profonda trasformazione/mutazione in un “Partito dei Signori”, anche se non nella perfetta accezione dell’emerito professore barese ?

Per capire se il “demo”, ovvero se il popolo degli elettori abbia cospicuamente abbandonato il Pd basta far riferimento alle ultime tornate elettorali. Alle politiche del 2018 il Pd registrò a livello nazionale un pesante calo di consensi, ma in Calabria il crollo fu ancora più significativo, portando al 14,34% la percentuale elettorale. Fu un voto razionale di protesta, che pure il gruppo dirigente rimosse come se non investisse un sistema di governo; ossia, un sistema che aveva prodotto la lacerazione del tessuto sociale della nostra regione e allargato le diseguaglianze. Le elezioni regionali successive del 2020 e del 2021 confermarono il crollo del Pd che nel 2020 si attestò sul 15% circa e nel 2021 sul 13 % circa.

La frattura con l’elettorato tradizionale è abbastanza evidente e non è colmata dagli scarsi consensi raccolti dalle liste collegate. Avrebbe meritato una riflessione il 16% raccolto dalla coalizione di De Magistris, ma si è preferito discutere di altro senza affrontare con lucidità e responsabilità la rottura sentimentale con il proprio elettorato. Dunque il “demo” se n’è andato e l’entità dei voti raccolti a fatica non giustifica la pretesa di essere un partito centrale nello schieramento politico locale. In Calabria residua ancora, nonostante l’assenza del “demo”, l’illusoria pretesa di essere il partito a vocazione maggioritaria, pensando così di realizzare la cosiddetta alleanza “larga” avente come architrave “questo” Pd.

Fra l’altro, il termine “largo” dilaga nell’illusione che il “civismo”, evocato da un partito regionale impermeabile a pratiche partecipative, possa tuttavia allargare l’area del consenso elettorale. È un errore, la risposta alla domanda di “civismo” richiede ben altro!

Ora, quali sono le condizioni interne al PD? La rappresentazione è facile scovarla nello svolgimento della fase congressuale, quando in realtà si sono evidenziati tutti i limiti di una struttura politico-organizzativa che lascia molto perplessi sulle modalità delle appartenenze e sulla formazione del consenso interno. Alla perdita di voti fa riscontro non tanto e non solo il calo degli iscritti, quanto la scomparsa della cosiddetta militanza. Alla fine, la votazione per la lista dei delegati al congresso regionale ha segnato il momento simbolico della caduta della partecipazione e dell’interesse della cosiddetta base militante.

È innegabile quanto un lungo periodo di commissariamento abbia inciso sulla vita interna del partito, dato che allo stato esso non registra una dimensione associativa ed organizzativa adeguata, come quella che normalmente legittima, per intenderci, l’elezione di chi ne è chiamato a reggere le sorti. Appare del tutto evidente che in fase congressuale si è pensato di realizzare una sorta di legittimazione diretta che avrebbe dovuto legare la leadership proposta e quel che resta della base. Un tentativo di investitura carismatica ma in assenza oggettiva dei presupposti che avrebbero potuto legittimarla effettivamente, vale a dire al di là delle stesse qualità del candidato. Tutto è stato vissuto, perciò, alla stregua di uno sforzo burocratico, senza confronto e senza entusiasmo.

In conclusione, lo stato attuale del partito in Calabria evidenzia una oggettiva mutazione che trova riscontro, in negativo, nella penuria di consensi elettorali e nella caduta di partecipazione organizzata, tanto da giustificare la definizione del prof. Canfora: il Pd come “Partito dei Signori”. Ecco, una volta poteva immaginarsi il partito dei “Signori delle tessere” o delle correnti organizzate, adesso anche l’accezione “dei Signori” risulta imperfetta. I nostri “Signori” forse sono stati individuati dallo stesso Segretario regionale quando pochi mesi addietro fece riferimento a feudi e feudatari “che giocano a fare gli strateghi per garantirsi una poltrona”.

Credo, però, che il Segretario sia stato eccessivamente benevolo nei confronti di chi controllava e/o controlla pezzi di partito: la storiografia più attenta ha rivalutato il medio evo e le organizzazioni feudali. I feudi del Pd sono, invece, ridotti a fortilizi mal governati e in preda al caos. Il problema vero, a questo punto, consiste nello smantellamento di una struttura pietrificata che non permette aperture vere ai bisogni della realtà calabrese. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se il congresso, come Mosca per le Sorelle di Cechov, sia stato solo un’illusione per fuggire la cocente quotidianità o, viceversa, abbia prodotto una reale inversione di rotta.