IL PD FA PASSI INDIETRO: TEMPI NUOVI PER I POPOLARI?

A leggere il Manifesto, ora nelle mani di Letta e Speranza, si rimane delusi. È l’indirizzo di fondo a suscitare perplessità. I cattolici democratici non possono acconciarsi a una logica di mera sopravvivenza. Lo sguardo va rivolto al domani, per fare passi avanti.

A leggere il Manifesto del nuovo Partito democratico si resta incatenati al dubbio se compiacersi o dolersi,  essendo comunque nitida la percezione di quanto ancora possa incidere sulla fragilità delle scelte la combinazione di un programmismo onnivoro con una permanente incertezza d’identità. Abbiamo sotto mano un compendio di fervide intenzioni progressiste, tutte ricamate con il filo d’oro della costante esortazione al cambiamento, da cui fatica ad uscire però un messaggio di aderenza alla complessità della vita reale. La somma di attenzioni a gruppi o segmenti – le diverse minoranze del panorama sociale – non pareggia l’esigenza di una sintesi politica, improntata a realismo, di cui abbisogna una proposta per il governo del Paese. 

Nel 2007, il Manifesto dei Valori redatto da Mauro Ceruti sulla scia di colloqui con Scoppola Reichlin e Parisi, lanciava un messaggio di fiducia. Si guardava al futuro, si delineava la speranza di un nuovo umanesimo, si accoglieva la novità di un sistema-mondo, con le sue luci e le sue ombre. Il contagio delle culture alla base del riformismo era pensato come elemento generativo di una svolta democratica, anche oltre i confini dell’Italia. Questa tensione ideale aveva bisogno di incorporarsi nel vivo della battaglia politica, dando respiro e vigore all’iniziativa di partito. Non è stato così. Da quel momento il Pd ha conosciuto l‘affastellarsi di gestioni diverse, tutte sostanzialmente disallineate, per una ragione o per l’altra, dall’iniziale volontà di cucire con certosina sapienza i panni del riformismo. Un partito che doveva trasformare il sistema di gioco, rompendo le gabbie di un bipolarismo rudimentale, ha perso slancio e credibilità man mano che irrigidiva il posizionamento di potere lungo una complicata traiettoria di tipo, per così dire, “demo-social-radicale”. In questo modo l’alba di un nuovo centro-sinistra è stata ben presto cancellata dalla folgorazione di una sinistra inquieta d’idee e suggestioni, ma finanche adattiva rispetto al potere. E si è visto, alla stretta finale, come le elezioni del 25 settembre abbiano segnato clamorosamente la distanza di questo Pd “di sinistra” dal grosso del suo elettorato potenziale, tanto da toccare nella circostanza il minimo storico dei consensi.

Dopo la sconfitta era dunque attesa una risposta coraggiosa, un ripensamento alla luce del progetto del 2007 – ben concepito e mal realizzato -, una più sofisticata elaborazione della piattaforma politica democratica. In realtà il testo finale, rimesso nelle mani di Letta e Speranza, non sembra corrispondere appieno a questo bisogno di rigenerazione. Ebbene, ci sono interi passaggi insuscettibili di contestazione, a cominciare da quelli che affrontano la questione delle riforme istituzionali: si mette un punto fermo, giustamente, contro l’intenzione della destra di fare dell’Italia una repubblica presidenziale, differenziando per altro il regionalismo, senza riguardi alla coesione territoriale e sociale, e quindi con il rischio di ulteriori squilibri ai danni del Mezzogiorno. Poi seguono le grandi opzioni, anch’esse da salutare con favore, a fresco contatto con le tante emergenze dell’ora: l’imperativo della pace, il sogno europeistico sempre vivo, l’ansia di equità e giustizia specialmente in rapporto al globalismo selvaggio degli ultimi decenni, la scommessa sul clima e l’energia, la fascinazione del comunitarismo come ombrello di solidarietà, l’appello alla dignità del lavoro umano, e altro ancora. E quando si legge nelle ultime righe che “democrazia e umiliazione non stanno insieme”, rimbalza la sensazione di un vasto sentire comune: resta, in definitiva, una radice etica che conferma il Pd nella sua missione di partito con una regola di progresso umanamente apprezzabile.

Ciò nondimeno, se il Manifesto rappresenta l’atto di fondazione del nuovo partito, alcune perplessità di fondo ne inficiano seriamente l’impostazione. È la traiettoria inclinata a un’etica giacobina, per la quale i diritti nascono dalla persona ma vanno oltre la persona, fissandosi in astrazioni e camuffamenti di dogmi, a rubare lo spazio di una superiore unità dei riformisti. Sembra che sui valori insorga il pregiudizio dei più radicali, il loro concetto di verità, l’esclusivismo delle loro visioni. Si tratta di una vera e propria retrocessione quanto a ricerca di punti focali di convergenza. Il paradosso è che mentre si rifiuta in economia il primato dell’individualismo, lo si accetta, per contro, nel modo d’intendere e coltivare la cultura dei diritti delle famiglie (solo al plurale) e delle persone, non incrociando minimamente, in questo modo, la posizione storico-filosofica del personalismo d’ispirazione cristiana.  

Si perde contatto, insomma, con una linea di pensiero politico. Anche l’europeismo, eredità saliente della storia democristiana – storia da cui il Pd dovrebbe ricavare il collegamento con il “riformismo reale” del Ventesimo secolo italiano – sfuma nel panegirico del Manifesto di Ventotene. Un documento, questo, davvero insigne e rispettabile, figlio dell’antifascismo di matrice azionista, ma piegato al disegno di un’Europa equidistante tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Unione Sovietica. In più, l’Europa tratteggiata da Spinelli e altri figura all’apice di una rivoluzione neo-illuminista a carattere aspramente anticlericale – basti pensare che la Chiesa è bollata come “naturale alleata di tutti i regimi reazionari”. È vero, nel Manifesto del Pd si parla dello “spirito di Ventotene”, quasi a voler scontornare le affermazioni più ostiche per un partito desideroso di aprire varchi, e non di chiuderli, evidentemente. Il problema però è che l’europeismo di De Gasperi – agli atti qualcosa di fondamentale e decisivo per la formazione della prima Comunità – cede il passo all’europeismo finanche mitizzato di Ventotene, sicché anche su questo terreno il Pd sconta l’incapacità di fare i conti con un passato degno di rispetto.

In conclusione, alla luce di un esame come quello affrontato qui brevemente, bisogna riconoscere con serenità che il Pd non fa un passo avanti, bensì ne fa uno o più indietro. In cerca d’identità, finisce per annullare quel dato innovativo che dava fiducia all’equilibrio tra centro e sinistra. E ciò a misura della impermeabilità nei riguardi della lezione rappresentata dal popolarismo, fino alle sue ultime evoluzioni, dopo la lunga stagione di governo della Dc, alle quali si agganciava il proposito di una politica rinnovata in forza di un partito capace di mettere insieme progresso e solidarietà. Il Pd si contrae, il Pd frena: non c’è più lo slancio iniziale. E il passaggio al “nuovo Pd” avviene con la premura di rialzare una bandiera, quella della sinistra, che nella nostra vicenda democratica è comunque identificabile con la controstoria di un’Italia minoritaria. 
L’impressione è che non s’avverta – dovrebbe invece avvertirlo Bonaccini, il più accreditato contendente alla segreteria, data anche la sua solida esperienza amministrativa – che il riformismo non fa solo rima con popolarismo, ma reclama e contempla l’apporto insostituibile del popolarismo. Finora tanti “sussurri e grida” di un congresso invero concitato, ma di una strana concitazione a freddo, si sono andati a spegnere sulle risonanze di questo discorso impegnativo, mortificandone  la portata. L’eco di qualche striminzita laudatio, volta a rassicurare più che a coinvolgere, ha preso il posto della discussione a tutto campo sul futuro della buona politica di avanzamento e sviluppo democratico. Ecco dove sta l’insidia della marcia indietro! E allora, che fare? Non si può cedere alla lusinga di una felice sopravvivenza, svuotando l’anima della narrazione che chiama in causa il cattolicesimo politico. Lo sguardo va rivolto al domani, sapendo di andare incontro a tempi nuovi, per i quali bisogna sempre essere  pronti.