La questione dell’ordinamento della Capitale suscita sempre un moto d’interesse. Nella discussione si perde il senso della concretezza. Quanto più la crisi morde ai fianchi della città, tanto più l’ingegneria istituzionale subentra a fomentare le illusioni. In genere si parla di nuovo ordinamento nella convinzione di poter innescare, per questa via, miracolose soluzioni finanziarie.

Tra le idee che ciclicamente tornano, a destra e a manca, ve n’è una ritenuta semplice ma valida: quella di un ulteriore processo di decentramento amministrativo, dal Campidoglio ai Municipi, fino al punto di frantumare Roma in tanti comuni autonomamente partecipi della realtà metropolitana. Chissà perché, una volta fatto questo, l’efficienza aumenterebbe e con l’efficienza anche la qualità della vita urbana. In un tempo dominato dalla regola di massima razionalizzazione tecnico-gestionale, per abbassare i costi ed elevare la produttività dei servizi, curiosamente rimbalza sul terreno politico un’affermazione estrinseca, priva di costrutto, che decreta l’esatto contrario. Il perché e il come si perdono nella fumisteria.

Anche il Pd consuma l’oppio di queste amene considerazioni. Fa parte del gioco. Eppure, quando si è all’opposizione, lo sforzo di revisione critica dovrebbe assumere contorni più nitidi. Il decentramento è nato decine di anni fa per esaltare, organizzandone le modalità, la partecipazione dei cittadini. Oggi, viceversa, in luogo di un’autentica partecipazione di base, si assiste alla micro-verticalizzazione del potere. Anche l’elezione diretta dei Presidenti di Municipio ha reso, all’atto pratico, un cattivo servizio. Affiancati da giunte prive di reali competenze, composte da assessori scelti al di fuori degli eletti, essi dimenticano il valore del confronto con l’assemblea dei consiglieri municipali.  Quale sarebbe, dunque, l’effettics strutturazione del fattore civico-partecipativo?

C’è bisogno, in verità, di “più Campidoglio” e più “consigli di quartiere”. Roma è fatta di circa 320 nuclei urbani, ognuno corrispondente a un certo livello di auto identificazione di vecchi e nuovi residenti. Pertanto, il passaggio da 19 a 15 municipi non ha fatto altro che ingarbugliare l’organizzazione degli uffici, con l’inevitabile penalizzazione dei cittadini. Il vero decentramento consisterebbe nel dare forma istituzionale alla vita di quartiere (lasciando agli attuali municipi i relativi compiti di sostegno e coordinamento). Anche le nuove tecnologie potrebbero essere impiegate per migliorare l’esercizio del diritto di partecipazione. Invece, grazie all’autarchia dei mini-Sindaci, si scivola passo dopo passo nella palude del disincanto democratico. Un vero guaio, frutto di pigrizia intellettuale e superficialità politica.

Resta da capire, in ultimo, se davvero una città scomposta in entità autonome, fino cioè ad arrivare all’abrogazione dell’attuale Comune, sia l’esito più confacente alla edificazione di una solida Città metropolitana. A questo riguardo poco si può dire, data l’astrattezza del disegno, salvo far presente che nessuna conurbazione di area vasta sussiste al mondo in assenza di un “centro” di governo. Non a caso, in sede di riforma costituzionale, intuendo la complessità del nodo istituzionale, si è voluto aggirare l’ostacolo prevedendo per Roma norme adeguate al suo status di Capitale. Di fatto si è solo prodotto un auspicio, non essendoci un criterio che possa asseverare la bontà di capricciose invenzioni. Non a caso…è tutto fermo.

Altro si potrebbe aggiungere, ma non si guadagnerebbe nulla in termini di comprensibilità del tema. Roma ha urgenza di un governo forte, come richiede un’articolazione urbana complessa, non di questo “pluralismo podestariale” fatalmente gravato di piccoli e grandi difetti del “centralismo capitolino”. Continuare a modellare l’odierno confronto pubblico sulle coordinate culturali e politiche degli anni ‘70 è indice di quanto sia decrepita la proposta dei partiti. Anche a sinistra, tra i dirigenti del Pd romano, questa inclinazione a ripetere e a ripetersi appalesa la rinuncia a fare i conti con la realtà. E quindi, in conclusione, a misurarsi con l’impatto di nuove esigenze di governabilità.