Articolo già pubblicato sulla rivista Atlante della Treccani a firma di Mario Del Pero

Donald Trump ci ha da tempo abituati a un linguaggio fuori dall’usuale registro politico e istituzionale. Gli ultimi suoi tweet contro un gruppo di deputate democratiche rappresentano però un ulteriore salto di qualità. Il presidente ha preso di mira le quattro rappresentanti – Alexandria Ocasio-Cortez (New York), Ilhan Omar (Minnesota), Ayanna Pressley (Massachusetts) e Rashida Tlaib (Michigan) ‒ che nei giorni scorsi erano entrate in rotta di collisione con la speaker della Camera Nancy Pelosi e la leadership democratica. Uno scontro duro, quello interno al Partito democratico, motivato dalla decisione di Pelosi di accettare infine un compromesso con il Senato a maggioranza repubblicana e approvare uno stanziamento straordinario di 4,6 miliardi di dollari, destinati al rafforzamento della sicurezza al confine meridionale e al potenziamento delle strutture di accoglienza, in particolare quelle che accolgono i minori. L’unità democratica – così vitale in prospettiva 2020 – aveva finora tenuto, ma questi scricchiolii ne rivelano l’intrinseca fragilità e la perenne tensione tra la parte liberal centrista e la nuova sinistra radicale, emersa con forza dopo l’elezione di Trump.

Trump è entrato nella contesa con una serie di tweet sbalorditivi per toni, argomentazioni e rozzezza. «È interessante vedere queste ‘deputate progressiste democratiche’ che vengono da paesi i cui governi sono una totale catastrofe, i peggiori, più corrotti e inetti di tutto il mondo», ha tuonato il presidente, «che ora dicono con voce alta e feroce al popolo degli Stati Uniti, la più grande e potente nazione del mondo, come deve essere governato … perché non se ne tornano invece da dove sono venute e s’impegnano a sistemare quei luoghi devastati e infestati dal crimine».

Le quattro deputate appartengono tutte a delle minoranze: Ocasio-Cortez è di origine portoricana; Omar – una delle prime due donne musulmane, assieme a Tlaib, a essere eletta al Congresso nel 2018 ‒, figlia di rifugiati somali, giunta negli USA all’età di dieci anni è in seguito divenuta cittadina statunitense; Pressley è la prima afroamericana a rappresentare il Massachusetts al Congresso; Tlaib è figlia di una coppia palestinese emigrata prima in Nicaragua e poi a Detroit, dove la deputata è nata.

Ai tweet spesso scorretti e grossolani di Trump l’America e il mondo hanno fatto l’abitudine. L’impressione forte è che dietro questi tweet vi siano però una logica precisa e un disegno politico conseguente. Lo evidenzia il fatto che i tweet siano più lunghi, articolati e meglio scritti del solito; lo mostrano i successivi rilanci del presidente e lo sconcertante silenzio dei repubblicani.

Tre sono le spiegazioni che possono essere offerte di questa nuova offensiva presidenziale. La prima, banale ma indiscutibile, è il razzismo di Trump, che ha radici profonde, come ben evidenziato in tanti passaggi della sua storia imprenditoriale, e sul quale ha di fatto costruito le sue fortune politiche, il cui momento fondativo, a volte ancora lo si dimentica, non fu tanto la stagione elettorale del 2015-16 quanto la campagna sul presunto, falso certificato di nascita di Obama, che nel 2010-11 Trump sostenne e finanziò. Un’azione, questa, finalizzata a dimostrare come Obama fosse nato in Africa e non potesse quindi essere eletto presidente, e il cui sottotesto razzista era visibile e in alcuni casi finanche ostentato. Quella teoria cospirativa ha lasciato scorie radicate e visibili, che Trump è riuscito in seguito a cavalcare. Durante le primarie repubblicane del 2016, i due terzi degli elettori di Trump si dichiararono, ad esempio, convinti che Obama fosse segretamente musulmano; ancora nel dicembre 2017 una maggioranza degli elettori repubblicani riteneva che Obama fosse in realtà nato in Kenya: una percentuale, questa, che saliva addirittura al 57% per chi dichiarava di avere votato per Trump un anno prima.

È un razzismo, questo, che Trump ha alimentato e sfruttato nel 2016 e che spera di poter mobilitare nel voto dell’anno prossimo. Qui si ritrova la seconda spiegazione dei tweet. Se vi è un segmento elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca e dai cui dipendono le sue sorti politiche (e in una certa misura giudiziarie) questo è rappresentato dai maschi bianchi. Questi costituiscono, è bene ricordarlo, un terzo dell’elettorato complessivo e, secondo gli studi più recenti di cui disponiamo, nel 2016 votarono 62 a 32 per Trump. Tale voto va preservato, consolidato e se possibile espanso. E lo si può fare anche attraverso l’uso di questi codici e parole d’ordine, non ultimo perché particolarmente diffusa tra una parte della base elettorale maschile bianca è l’idea che nell’America d’oggi le minoranze, e quella afroamericana su tutte, godano di privilegi e tutele ingiuste, dai programmi antipovertà, all’affirmative action a una fiscalità redistributiva che trasferisce risorse dai redditi medi e medio-bassi a quelli bassi e bassissimi. È questo uno dei paradossi più marcati di un’epoca di diseguaglianze crescenti e monumentali iniquità a favore del famoso 0,1%, che detiene più del 20% della ricchezza nazionale, il triplo rispetto a quarant’anni fa: che il malcontento s’indirizzi cioè non verso l’alto ‒ quei redditi altissimi che sono i primi beneficiari dei tagli alle tasse come quelli di Trump ‒, ma verso un basso che può essere facilmente “alterizzato” in termini razziali o etnici, visto che il reddito medio di un nucleo familiare nero è circa del 40% inferiore a quello di un nucleo familiare bianco (40.000 dollari annui il primo; 68.000 il secondo).

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