Articolo pubblicato sulle pagine de “L’Osservatore Romano” a firma di Roberto Cetera

Tante sono le iniziative che ogni giorno ci vengono segnalate di realizzazione pratica degli orientamenti che l’enciclica Laudato si’  ha indicato per uno sviluppo economico improntato alla sostenibilità ambientale.  Vengono da tutti i continenti e, in non pochi casi, si riferiscono già nell’intestazione al titolo del  documento pontificio.  Nell’agricoltura e non solo.  E di molte cercheremo di raccontare la storia nelle prossime settimane su queste pagine.

Sono iniziative spesso improntate alla spontaneità e generosità ma che  per lo più riguardano  piccole nicchie di mercato.  Comunque importanti perché contribuiscono a costruire una cultura diffusa di attenzione all’ambiente, inteso come dono creaturale di Dio, e poi, come si dice, tante gocce fanno un oceano.

Ma vogliamo dare uno sguardo anche a come Laudato si’  ha eventualmente influenzato  le politiche dei grandi gruppi economici, e anche gli uomini che spingono i bottoni del pannello di controllo delle grandi scelte  economiche, che infine condizionano il nostro vivere quotidiano.

Cominciamo con un manager che di pannelli di controllo ne ha visti tanti, e che ora è nel team di executive  che  avranno un ruolo importante nella gestione delle risorse destinate all’Italia dal  Recovery fundRecovery fundeuropeo.  Antonio Migliardi, 62 anni, ha cavalcato per quasi 40 anni le onde spesso turbolente dell’impresa pubblica italiana: dalla Sip-Stet, alle Fs, all’Alitalia, a Vitrociset, a Telecom Italia, è ora direttore dello Sviluppo organizzativo di Invitalia, che è l’agenzia governativa per lo sviluppo delle imprese e gli investimenti. «Avevo letto Laudato si’  — spiega — quando venne pubblicata ormai 5 anni fa. Ma è stato giocoforza riprenderla in mano in queste ultime settimane, quando è risultato evidente che i progetti di rilancio e sostegno dell’economia dopo la pandemia costituiranno un’occasione unica, forse irripetibile, per gettare le basi di un sistema economico che faccia della sostenibilità ambientale un valore fondante. Non possiamo più guardare soltanto all’aspetto del  mero profitto. O meglio,  dobbiamo comprendere che sul lungo termine anche l’aspetto della redditualità sarà inficiato dai danni ambientali irreversibili e dalle fratture sociali che rischiamo di produrre.  Insomma è la vecchia storia dell’uovo oggi e della gallina domani: non si tratta di essere buoni ma di essere intelligenti.  Non c’è più spazio per i “furbi”.  Non tutta la classe imprenditrice italiana lo ha capito, devo ammetterlo.   Per questo penso che la battaglia più importante e difficile sia quella culturale.  Molto più della scelta tecnica dei progetti e delle priorità.  Dobbiamo formare una nuova classe di imprenditori e di manager che abbiano diversi fondamenti valoriali.  Io personalmente mi occupo soprattutto di questo: selezionare nuove figure professionali che possano essere agenti di questo cambiamento.  Le confido un piccolo segreto: quando devo scegliere, mi affido oggi più volentieri ad un giovane laureato in filosofia che ad un aspirante tecnocrate.  Ho conosciuto degli ottimi giovani che studiando filosofia avevano acquisito un’apertura mentale, una vision ,  che li ha poi resi ottimi manager.  Anche perché il depauperamento culturale che è sotto gli occhi di tutti, in tutto l’Occidente, non rende un buon servizio neanche alle imprese.  Un’impresa di successo non è solo “tecnica e grana”. Un’azienda di successo è un’azienda che ha un’anima».

Mi diceva della sua rilettura di «Laudato si’».

Sì. E ad uno sguardo più attento l’ho trovata straordinaria. Non penso di esagerare dicendo che è la fondazione di un nuovo umanesimo cristiano. Anche se Papa Francesco per umiltà non usa la parafrasi direi che veramente indica “una via, una verità e una vita”. C’è la rivoluzione copernicana del superamento di quella visione antropocentrica per la quale il Creato  è solo strumentale e al servizio dell’uomo. Che non è solo un problema teologico (materia da cui faccio meglio a rimanere fuori (dice sorridendo, ndr ) ma che investe quasi  tutta la filosofia moderna, anche per il razionalismo illuminista e l’idealismo la natura mantiene un ruolo subordinato e sussidiario. Ma colgo anche una qualche linea di continuità con quanto (in verità poco) i pontificati precedenti avevano dichiarato sul tema. Vorrei aggiungere una sensazione che provo spesso nel leggere o vedere Papa Francesco.  Quella di una somiglianza intima con san Paolo vi . Nel senso di una sorta di solitudine di entrambi nel porsi sulle proprie spalle i problemi e dolori del mondo. Penso a quelle immagini del 27 marzo scorso, che rimarranno nella storia.  Una sintonia drammatica e compassionevole con le tragedie, le vulnerabilità, i limiti di questo mondo, così fragile e anche presuntuosamente autosufficiente. Per Papa Francesco non c’è una natura felice corrotta dall’uomo, ma una natura che è nelle mani dell’uomo. Mi colpisce anche l’esortazione a sapersi porre in ascolto davanti alla scienza: un’umiltà non consueta.  Ma l’aspetto secondo me più importante è l’insistenza sul tema dell’interdipendenza, cioè della necessità di ricercare comportamenti connettivi e solidali nel rapporto con la natura.  A tutelare la terra non  basta la politica di una sola parte del mondo. Ricordo che il primo a parlarne fu anni fa Gorbačëv con Reagan ad Helsinki. La tutela del creato non può prescindere dalla ricerca della pace e del dialogo tra le nazioni e tra i popoli. L’agenda dell’Onu 2030  sulla sostenibilità è ad oggi in grave ritardo, a causa della pandemia ma non solo. Ma vi è anche un’altra accezione del termine “interdipendenza”. Cioè il legame necessario e condizionante che esiste tra i vari elementi che costituiscono la sostenibilità. Mi spiego con un esempio:  durante i mesi del lockdown la qualità dell’aria e dell’ambiente naturale sono migliorati, ma la povertà, l’esclusione sociale, la violenza, la disoccupazione, la dispersione scolastica sono aumentati. È sostenibilità questa? Vi sono nel testo  delle indicazioni nette e vincolanti: non asservire l’economia alla tecnocrazia e non asservire la politica all’economia.   Mi rinviene quanto scriveva Heidegger: «Solo un Dio ci può salvare, perché la tecnica ha vinto».

Quindi una battaglia innanzitutto culturale, come diceva prima.

Assolutamente sì. Sa che le dico? Fosse per me, adotterei senza esitazione, nella rinata ora di educazione civica a scuola, Laudato si ’ come libro di testo. Lo ripeto: è il programma di un nuovo umanesimo.

Ma torniamo al mondo dell’economia e delle imprese . . .

Le dico la verità, le grandi corporation , secondo me, sul piano dell’ecologia integrale esibiscono molto più di quello che fanno. Il green  si è rivelato un marketing tool  formidabile, ma non sempre corrisponde a strategie coerenti. Uscire dalla logica del mero conto economico per molti è difficile. Per noi di Invitalia, in qualche modo è più facile, perché ci dà forza lo scopo per cui siamo nati.  Noi siamo, come dire, il braccio armato del Governo sulle politiche industriali. Siamo un’agenzia di sviluppo il cui compito è aiutare le imprese a nascere e svilupparsi, specie nel Meridione. È un modello di intervento indiretto, a differenza di quelle che una volta erano le partecipazioni statali, ma non meno efficace se ben orientato,  anche in senso ambientale. Finanziamo start up  e progetti di sviluppo, aiutiamo i processi di ristrutturazione da crisi e riconversione, sosteniamo l’impresa giovanile, gestiamo grandi bonifiche ambientali,  aiutiamo gli enti pubblici a ben spendere le risorse comunitarie, siamo dei facilitatori, non dei player .  E tutto questo lo facciamo operando delle selezioni in base a una scala di valori, in cima alla quale c’è appunto la sostenibilità.  Il nostro obiettivo è sociale prima che economico. Il nostro orgoglio è cercare di fare qualcosa di buono per la comunità a cui apparteniamo.

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Ci incuriosisce conoscere dal vivo questo “qualcosa di buono” e sostenibile, e così si unisce alla conversazione un altro executive  di Invitalia, Ernesto Somma, che ci sciorina una sequela di casi che meriterebbero di essere raccontati ciascuno. La storia dell’Idealstandard, che si riconverte alla produzione dei “sampietrini”, i cubetti di porfido, e che mette insieme, come vantaggi ambientali, l’abbandono degli scavi dalla roccia viva e il riutilizzo delle ceneri prodotte dai termovalorizzatori, ma soprattutto il salvataggio di 200 posti di lavoro. O la chiusura e la bonifica dell’area a caldo dell’acciaieria di Trieste. Ma anche il sostegno a tante microimprese che inventano iniziative originali, come per esempio quella della stilista che lascia il glamour del mondo dell’alta moda, e mette su un laboratorio che riutilizza i materiali scartati dalle grandi griffe per farne abiti originali, ed impiegando soprattutto soggetti deboli. «Interveniamo spesso — ci dice Somma — dove la causa della crisi è proprio nella non-sostenibilità, come a Taranto, ma anche in casi dove l’impresa, a causa della non-sostenibilità, non c’è proprio più». Le ingenti risorse che presto arriveranno col Recovery fund, — aggiunge Migliardi — saranno un’occasione formidabile per cambiare il modello a venire di sviluppo di questo paese, dando priorità a sostenibilità ambientale e lavoro». «Su questo — conclude — c’è un percorso aderente alla Laudato si’  che mi piacerebbe verificare. Spesso quando incontro uomini di Chiesa impegnati nel sociale mi dicono “non bastano le nostre minestre calde delle nostre mense e i nostri empori, la vera necessità è creare lavoro, restituire dignità”.  Ecco sarebbe interessante se riuscissimo a trovare delle forme di collaborazione con i vescovi italiani per provare a creare lavoro e non solo assistenza. Ma un lavoro nuovo, che viva nell’ambiente e che l’ambiente faccia vivere».