Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore l’articolo apparso sulle pagine della rivista Vita Pastorale diretta da Padre Francesco Occhetta.

1.Il rapporto tra i diversi poteri nella democrazia italiana può essere affrontato secondo due modalità complementari: in primo luogo, attraverso l’esame delle disposizioni costituzionali e delle loro interpretazioni succedutesi negli oltre settant’anni di vita repubblicana; in secondo luogo, attraverso l’esame delle prassi applicative e degli assetti di fatto, che hanno variamente interagito con le prime. In questo scritto faremo riferimento al modello disegnato in Assemblea costituente, ponendolo a confronto con la situazione attuale, nella convinzione che la tenuta complessiva della democrazia italiana debba molto alle caratteristiche di tale modello e che pertanto un suo eventuale mutamento (di tanto in tanto evocato da esponenti politici a corto di idee e di volontà seria e fattiva, e da qualche loro poco avveduto consigliere) debba essere attentamente ponderato, e che comunque sia metodologicamente sbagliato proporre mutamenti di regole e istituti costituzionali, senza avere previamente valutato se siano davvero essi alle origini delle disfunzioni lamentate e se di essi si sia fatta applicazione corretta.

2. La parola che meglio può forse sintetizzare il rapporto tra i diversi poteri previsto nella Costituzione italiana è “equilibrio”. Un equilibrio che troviamo presente già all’interno dei principi fondamentali (si pensi, ad esempio, al rapporto tra l’art. 7 e il primo comma dell’art. 8, dove l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge costituisce un bilanciamento con la peculiare condizione giuridica della confessione cattolica) e che costituisce il denominatore comune della seconda parte della Costituzione, dove traspare la preoccupazione dei costituenti di evitare che ciascuno dei poteri costituzionali (Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale) lo sbilanci a proprio favore, e in particolare che venga compromesso l’equilibrio tra i poteri espressione dell’indirizzo politico e i poteri di garanzia costituzionale. Anche all’interno dei singoli organi e poteri, sia di indirizzo politico, sia di garanzia, ritroviamo meccanismi e istituti che risentono della medesima impostazione: si pensi all’equilibrio multivirtuale delle disposizioni costituzionali in tema di governo (uno dei suoi profili è divenuto di viva attualità in occasione della formazione del primo Governo Conte), oppure al delicato e innovativo bilanciamento che la Costituzione realizza nella composizione del Consiglio superiore della magistratura e nella ripartizione delle competenze tra questo e il Ministro della giustizia.

3. Il modello costituzionale ora sintetizzato risente – lo si ripete spesso e giustamente – dell’impostazione che, all’interno dell’Assemblea costituente, ne diede la componente cattolico-democratica, la quale svolse sul punto un ruolo determinante. Secondo questa impostazione, una costituzione è proporzione ed equilibrio, come soprattutto Giorgio La Pira aveva chiarito in numerosi scritti anteriori e coevi ai lavori costituenti. Proporzione, nel senso che una buona costituzione deve essere proporzionata alla società cui si riferisce, e ciò si verifica quando “la struttura dell’organizzazione giuridica rispecchia in sé quella del corpo sociale” (e il corpo sociale “esiste col suo fine e con la sua struttura anteriormente alla organizzazione giuridica positiva”). Equilibrio, poiché la struttura pluralistica della società – con il riconoscimento di “realtà sociologiche e giuridiche diverse dallo Stato e che questo deve proteggere ed ove occorre integrare: comunità familiare, culturale, religiosa, economica, territoriale, internazionale” – si riflette nella struttura pluralistica degli organi costituzionali dello Stato. E alla domanda se la Costituzione italiana appena approvata rispecchiasse la struttura pluralistica della società, quella “piramide rovesciata secondo un criterio di socialità progressiva” (secondo la celebre definizione che della struttura costituzionale diede Aldo Moro, stando all’autorevole testimonianza di Meuccio Ruini) la risposta di La Pira fu: tendenzialmente sì.

4. Proporzione ed equilibrio non vanno confusi con debolezza. Nel tempo, è prevalsa in studiosi e politici l’opinione secondo cui il rapporto tra i poteri disegnato nella Costituzione italiana (la sua “forma di governo”) andrebbe nel senso di una razionalizzazione debole della forma di governo parlamentare o, per dirla con Leopoldo Elia, discreta. Come ho avuto occasione di scrivere qualche anno fa proprio su questa rivista, tale opinione sembra tuttavia più il frutto di un’analisi della pratica costituzionale che non del testo della carta, se è vero che il principale artefice della nozione di parlamentarismo razionalizzato, Boris Mirkine-Guétzevitch, nel presentare, all’inizio degli anni Cinquanta, la nuova Costituzione italiana, ne diede un giudizio ampiamente positivo, in particolare dell’art. 94 il quale “riassume all’incirca tutti gli elementi della procedura razionalizzata in formule sobrie che lasciano spazio sufficiente alla giurisprudenza”. Una “profezia”, quella di Mirkine, che, a distanza di anni, appare azzeccata, essendo sempre più evidente (ancorché non sia sempre facile convincere di ciò i nostri aspiranti riformatori costituzionali) che le disfunzioni istituzionali vadano addebitate a omissioni nella legislazione attuativa e a scelte sul piano dei regolamenti parlamentari, della legislazione elettorale e dei comportamenti degli attori politici, piuttosto che a difetti di architettura costituzionale: del resto già nel 1948, in un articolo pubblicato sulla rivista dossettiana Cronache sociali e intitolato Per un efficiente governo democratico in Italia, negli stessi termini si esprimeva Meuccio Ruini, auspicando la sollecita approvazione di quella legge attuativa dell’art. 95 Cost. (“una legge-chiave, un punto di volta dal quale si possono guardare i vari problemi strutturali”), per la cui approvazione sarebbero dovuti trascorrere 40 anni …

5. La risposta di La Pira e dei principali esponenti del cosiddetto gruppo dossettiano circa la corrispondenza solo tendenziale della struttura della nuova Costituzione alla struttura pluralista del corpo sociale era motivata dalla mancata differenziazione della composizione e dunque della rappresentatività delle due Camere: la seconda Camera avrebbe dovuto essere la Camera dei “corpi” in cui si articola il pluralismo sociale (comuni, regioni, corpi professionali, culturali, ecc.). Sarà La Pira stesso a sintetizzare, con la consueta lucidità, le ragioni di tale mancata differenziazione: “pregiudizi derivanti dallo pseudo corporativismo fascista, da un mancato approfondimento del problema da parte dei partiti e dell’Assemblea costituente e da effettive difficoltà pratiche”. La critica lapiriana al bicameralismo paritario era largamente condivisa all’interno del gruppo democratico-cristiano, ben al di là della pattuglia di parlamentari riuniti attorno a Giuseppe Dossetti. Ad esempio, in uno scritto del 1948 sempre su Cronache sociali, Costantino Mortati oppone alla critica di organicismo, rivolta dai laici e dai socialcomunisti alle posizioni democratico-cristiane, due considerazioni di fondo: che tale concezione “trova la sua giustificazione nella natura diffusiva della politica, destinata a permeare tutti i settori della vita associata ed a trarre da tutti la linfa vivificatrice”, e che l’organicismo “è uno di quei fenomeni che potrebbero dirsi neutri perché suscettibili di assumere aspetti assai vari, di essere impiegati a fini diversi o anche contrastanti fra loro”. Da allora, non soltanto quell’impostazione non ha più avuto convinti propugnatori, ma anche le pur labili tracce di essa nella carta costituzionale (si pensi al Cnel) sono state dapprima immiserite nella prassi e poi fatte oggetto di una veemente e miope campagna soppressiva. A livello parlamentare, non meraviglia che una proposta di legge elettorale volutamente nel solco di quell’impostazione (XVII leg., Atto Camera n. 1453, Balduzzi e altri, presentata il 31 luglio 2013) non abbia avuto, tanto più in tempi di Italicum rampante, accoglienza sostanzialmente positiva …

6. Eppure è da quell’impostazione sui rapporti tra i poteri nella democrazia italiana che converrebbe muovere (magari cominciando con attuare l’allargamento della Commissione parlamentare per le questioni regionali, ai sensi dell’art. 11 della legge cost. n. 3/2001) per innovare la struttura costituzionale vigente senza romperne l’equilibrio profondo. L’esperienza delle revisioni costituzionali bocciate dagli elettori nel 2006 e nel 2016 dovrebbe servire sia da ammonimento a non proporre strumentalmente il cambiamento dei rapporti tra i poteri per ottenere effetti politici vantaggiosi per sé e per i propri sostenitori, oltre che a non ascrivere alla Costituzione responsabilità risalenti ad altre cause, sia da incoraggiamento a valutare con attenzione la prassi per sapere discernere ciò che è deviazione o rottura rispetto al modello costituzionale da ciò che ne costituisce innovazione rispettosa (ho provato recentemente a dimostrare come un approccio siffatto sia in grado di dare conto anche di vicende delicate e complesse, come quelle che hanno interessato il Consiglio superiore della magistratura, autentico snodo di quello che è oggi il nucleo profondo della separazione dei poteri, quella cioè tra potere politico e magistratura). Alla tutela del modello costituzionale deve tuttavia affiancarsi la valorizzazione della qualità dell’equilibrio costituzionale dei poteri: pensiamo soltanto all’essenziale ruolo svolto, anche in questi mesi e in queste settimane, dal Presidente della Repubblica nei rapporti con gli organi di indirizzo politico e come rappresentante dell’unità nazionale (il cui senso profondo lo stiamo apprezzando proprio in mezzo alle difficoltà e alle apprensioni legate alla diffusione del virus Covid-19, nel non facile bilanciamento tra ragioni dell’indirizzo e coordinamento e ragioni dell’autonomia regionale), nonché al significato stabilizzatore e di bastione dei valori del costituzionalismo che, nel suo insieme, svolge la Corte costituzionale. Tale qualità va ribadita anche in questi giorni, nel mezzo (ma forse sarebbe meglio dire: ai margini) della discussione sul prossimo referendum costituzionale avente per oggetto la riduzione del numero dei parlamentari: referendum la cui portata e il cui significato si presentano quanto mai ambigui, oscillando tra un remake, di cui non si avverte proprio la necessità, dell’antiparlamentarismo e una, sempre utile, spinta verso un più alto grado di etica pubblica. Al di là dell’eventuale conferma da parte del corpo elettorale, rimarranno intatti i temi di fondo, che attendono risposta: una legge elettorale finalmente sincera ed efficiente, una migliore caratterizzazione delle due assemblee parlamentari. Ce n’è a sufficienza per concludere questo ragionamento con l’indicazione di due direzioni possibili di cambiamento: più forza agli enti intermedi, più presenza della società nei corpi rappresentativi. Se da un lato è impensabile riferirsi al cattolicesimo democratico e sociale senza la dovuta attenzione a queste due direzioni di marcia; dall’altro esse attendono interpreti convinti, autorevoli, coerenti.