I sindacati sono stati i primi a scontare l’evoluzione dei tempi. Si spera che diventino sindacati di programma a respiro internazionale, costituendo laboratori, centri studio, commissioni a cui accedano anche giovani laureati in economia e finanza, in modo tale da essere competitivi in un mondo che cambia con la globalizzazione.

A fronte (anche) dell’assalto alla sede nazionale della Cgil sabato scorso, durante le proteste, anche violente, da parte di alcuni, contro il Green Pass imposto dal governo, sorgono perplessità da ambo le parti. Sopratutto a fronte dei prossimi ballottaggi politici al comune e nei municipi romani. Sorgono da parte di chi, orientato a destra, si chiedere quanto un tale caos abbia svantaggiato il centro destra romano; sorgono da parte di chi, orientato da ambo le parti, si chiede quanto sia giustificabile il lancio dei sampietrini e l’invasione all’interno di un immobile, e non di uno qualsiasi. Considerando che il sindacato in questione è il primo, in Italia, in fatto di storia, e in fattore di numero degli iscritti, viene da pensare che si sia trattato di un’azione dimostrativa. 

Ma per dimostrare cosa? Indugiare su alcune questioni, prima fra tutte: ma il sindacato non si chiede perché la gente sia esasperata? Il sindacato ha fatto tutto il possibile per tutelare i lavoratori? Si è reso connivente della una macelleria sociale negli ultimi decenni? Ecco, tali perplessità, che in altri momenti sarebbero lecite, ora potrebbero essere qualificate come un ammiccamento alla violenza. D’altro canto sono domande alle quali si deve pur rispondere, anche senza pretesa di esaustività. Il sindacato negli ultimi decenni non ha dimostrato la competitività che ci aspettavamo, semplicemente perché non poteva farlo: sono cambiati i paradigmi del mondo del lavoro. Nei primi vent’anni post seconda guerra mondiale i sindacati si sono rapportati con la politica e con un’economia ancora nazionale. Con l’avvento della finanza internazionale, delle delocalizzazioni, dei mercati trasnazionali, quelle logiche sono saltate. 

Cambia il modo di intendere e di vivere il lavoro, ma non è cambiata la mentalità dei lavoratori. I sindacati hanno indugiato su quelle pretese, cercando di accontentare i propri iscritti in quelle rivendicazioni ormai impossibili. Intanto la scala mobile si rompeva, e l’epilogo finale fu la riforma delle pensioni nel 2011. La finanza detta le leggi, persino alla politica. Il sindacato, in parte, ha tenuto salda la sua forza nella “protesta”, ma il programma è mancato. Associazioni di lotta e di governo si sono trovate a subire l’agenda internazionale, dicendo che non fosse giusta, ma senza riuscire a dettare alcune righe di tale agenda. 

Il progetto di un unico sindacato internazionale sembra essere più utopia che possibilità. Dire che i sindacati non sono stati al passo coi tempi non è sbagliato; ma dire che sono stati volutamente conniventi credo sia malafede. Noi chiamiamo “ingiustizie” quel salario minimo che non c’è, quella pensione retributiva che non può più esserci e, a costo di sembrare impopolare, tutti quei diritti che non incontrano più il favore storico. Utilizzare i casi di cronaca in cui il malaffare sindacale, per colpa di alcuni individui, è emerso, è ancora peggio: significa voler trovare davvero il diavolo dove non esiste. Significa indicare un albero che cade, ignorando la foresta che cresce.

I sindacati sono stati i primi a scontare l’evoluzione dei tempi. Si spera che i sindacati di forza, di struttura, diventino sindacati di programma a respiro internazionale, costituendo laboratori, centri studio, commissioni a cui accedano anche giovani laureati in economia e finanza, in modo tale da essere competitivi in un mondo che cambia con la globalizzazione. Giustificare i disordini con la frustrazione sociale, però, significa mettere la testa sotto la sabbia. Chiunque lavora è protagonista delle logiche di diritto e rivendicazione: sindacato siano tutti. Temo che la rabbia ci tolga quella lucidità necessaria per essere protagonisti in questo delicato momento di cambiamento, in cui abbiamo bisogno di sentirci parte di un’unica comunità senza partiti ideologici, anziché lasciate che tutto vada in malora nell’odio.