«Roma è, sin dal dopoguerra, una città in condizioni eccezionali». Questa affermazione, in uso nel linguaggio di Salvatore Rebecchini ogni qual volta venisse intervistato da un organo di stampa o fosse oggetto di dure critiche da parte delle correnti legate all’opposizione politica, sembra ancora molto attuale. L’eccezionalità, per la capitale d’Italia, era ed è un fenomeno ricorrente, perché Roma questa condizione continua a viverla per motivi che di generazione in generazione sono mutati nella forma, ma non nella sostanza. Roma è, di fatto, con tutte le criticità indotte, una metropoli in perenne ricostruzione vs manutenzione.

Lo era a maggior ragione il 12 ottobre 1947, quando Rebecchini fu nominato sindaco mediante elezioni democratiche. Democristiano, appoggiato da liberali, qualunquisti e da tre voti decisivi dei missini, si sentì investito non solo di un mandato istituzionale di grande responsabilità, ma anche di una missio spiritualis la quale prevedeva la transizione di matrice ideologico-sociale trasposta dal binomio De Gasperi-Montini (quest’ultimo già Segretario di Stato Vaticano) nello scenario politico romano; l’obiettivo era quello di tenere lontano dal potere le temute sinistre marxiste. In tal senso, Roma rappresentava un terreno di scontro tanto simbolico quanto fertile, perché di contesti divisivi ce n’erano a volontà: uno dei più sentiti era l’urgenza di restituire dignità – ma soprattutto una dimora – alle decine di migliaia di sfollati e ai tanti immigrati del meridione che si erano avvicinati alla città eterna in cerca di un lavoro e di una vita più decorosa della precedente, fatta di miseria e bombardamenti. L’intenzione metteva d’accordo tutti, il problema si presentava sul come farlo. Per la Dc, la prima causale, tuttavia, era quella di riportare la città alla sua dimensione di centro della cristianità universale a scapito delle macerie lasciate dalla guerra e dei totalitarismi che aveva prodotto. Ciò rappresentava certamente il minimo comun denominatore di tutti gli altri impegni, non ultimo il rispetto degli accordi atlantici.

La città, ancora ferita ma colta da una febbrile attività di riedificazione urbanistica che interessò in primo luogo le periferie, si trasformò in un grande cantiere dal quale non fu esente il centro storico. E qui iniziarono le polemiche e le accuse a Rebecchini : l’abbattimento di Via della Vittoria per aprire un varco che collegasse il Corso a Via Veneto fu solo un assaggio. L’opera fu annullata, ma ciò nondimeno andarono a buon fine il completamento di Via della Conciliazione in previsione dell’Anno Santo 1950, la Stazione Termini,  la Cristoforo Colombo, buona parte del Gra e il primo tratto della metropolitana che collegava il centro all’Eur. Niente male, si potrebbe dire. Ma le polemiche infuriarono, e a soffiare sul fuoco ci si misero anche i radicali della prima ora, agli antipodi dell’ambientalismo ecologista di recente memoria. Il primo cittadino incassò e balzò alle cronache per alcune vicende giudiziarie legate all’abusivismo edilizio che coinvolsero immobiliaristi vicini alla giunta capitolina, ma dalle quali egli uscì pulito nonostante le numerose campagne di stampa a dir poco diffamatorie.

Rileggendo le carte, le ricostruzioni storiografiche, le interviste e alcuni verbali inerenti ai momenti forse più delicati di entrambe le due consiliature Rebecchini, si evince, e perdonateci se non riteniamo ciò solo una teoria ipotetico-deduttiva, che il sindaco si trovò suo malgrado nel bel mezzo di ingranaggi contorti (oseremo dire anche asimmetrici e perversi) costituiti dai grandi interessi della finanza immobiliare, dalle dispute tra appaltisti senza scrupoli, dallo scontro ideologico tra modi diversi di concepire l’architettura urbana e la stessa politica; una situazione del tutto fuori controllo e tristemente immune da qualsiasi iniziativa, ordinanza o delibera che potesse dare luogo a soluzioni condivise o a punti d’incontro intesi a concertare. Rebecchini funse da parafulmine, da capro espiatorio, e nonostante questo assolse due mandati per un totale di quasi dieci anni di sindacatura. Nel bel mezzo, anche la presidenza Anci e il gemellaggio Roma-Parigi; un gemellaggio che fece epoca ed è tutt’ora attuale, proemio di una vocazione europeista celata ma che oggi ci permettiamo di riconoscergli.