IL TEMPO GIUSTO PER AVERE RAGIONE. MIGUEL GOTOR E LA «GENERAZIONE SETTANTA».

«Quello che si legge oggi sulle pagine di questo libro – scrive qui il recensore – denso e avvincente è un elenco di fatti nei quali, come in una sapiente sceneggiatura, protagonisti, circostanze, collegamenti, luoghi, legami istituzionali, politici e professionali, finanche famigliari, appaiono con continuità e tempismo perfetto in tutte le stanze buie della cronaca italiana di quegli anni, tracciando un percorso tutto sommato lineare pure nel suo caotico andamento».

Marco Bellizi

Perché leggere un altro libro sugli anni Settanta, posto che la verità riposa nei documenti secretati, in quelli distrutti, nelle bare di chi è morto, nei faldoni impolverati dei tribunali e in quelli ben custoditi degli avvocati? Se queste carte parlano di strategia della tensione, di anni di piombo, di terrorismo rosso, di terrorismo nero, di terrorismo mediorientale, di mafia, camorra, banda della Magliana, agenti sovietici, agenti americani, agenti inglesi, agenti francesi, agenti israeliani, naturalmente di agenti italiani. Di guerra fredda (si fa per dire). Una matassa quasi inestricabile. Perché, si diceva, parlarne di nuovo se, grosso modo, la verità è quella che tutti hanno intravisto, sacrificata alla ragion di Stato, al benessere di una nazione e dell’intero sistema geopolitico?

 

La prima risposta è, dovrebbe sempre essere, di carattere umanitario e si può ritrovare ad esempio nelle parole che ebbe a dire un famigliare di una delle vittime del “disastro aereo” di Ustica: «Perché nessuna ragione al mondo giustifica l’assenza di una verità. Potrebbe essere stato anche lo sputo di un airone. Ma lo dicano».

 

Però non basta, perché a chi chiede questo genere di giustizia si ha il dovere etico di rispondere compiutamente solo nelle aule dei tribunali. Né soccorrono le ragioni dello storico — in questo caso Miguel Gotor, autore del bel Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982 (Einaudi, Torino, 2022, pagine 447 euro 34) — spinto dalla legittima ambizione di passare dalle testimonianze, dalle cronache, dalle narrazioni di parte, all’oggettività, appunto, della storia.

 

Il fatto è che, purtroppo, in politica (e nella vita), come scrive lo stesso Gotor a proposito di Aldo Moro, «il momento in cui si ha ragione può essere più importante delle ragioni stesse: non bisogna avere ragione prima, né dopo, ma al momento giusto». E allora, forse, la domanda da cui ci si è mossi è sbagliata. Magari la domanda appropriata è se sia arrivato il momento giusto per avere ragione.

 

Non è un cruccio, intendiamoci, di cui si debba far carico lo storico: il suo compito è inseguire sempre l’oggettività dei fatti e non distribuire, se non incidentalmente, ragioni e torti. Ma siccome, afferma Gotor, «scriviamo, con buona pace dei diplomatici, dei magistrati e dei facitori di date, soltanto ciò che riteniamo possa essere un giorno letto e quindi, prima o poi, documentato», inevitabilmente, quello che si legge oggi sulle pagine di questo libro denso e avvincente è un elenco di fatti nei quali, come in una sapiente sceneggiatura, protagonisti, circostanze, collegamenti, luoghi, legami istituzionali, politici e professionali, finanche famigliari, appaiono con continuità e tempismo perfetto in tutte le stanze buie della cronaca italiana di quegli anni, tracciando un percorso tutto sommato lineare pure nel suo caotico andamento.

 

Ma, insomma, cosa è accaduto veramente in Italia, in quei dieci anni nei quali è accaduto tutto? In quel Paese che più di 70 anni fa si dotò di una Costituzione formale antifascista per poi vivere una Costituzione materiale incardinata sul principio dell’anticomunismo? Il Paese in cui non passava giorno che non arrivasse notizia di bombe, gambizzazioni e rapimenti, di esecuzioni a sangue freddo, di incendi e di volantini che annunciavano il processo del popolo allo “Stato imperialista delle multinazionali”?

 

Lo scenario illustrato da Gotor è quello di un’Italia in guerra. Una guerra non dichiarata, combattuta tra i fautori di una svolta autoritaria (ispirata, incoraggiata e finanziata dall’estero) e i militanti dell’affermazione armata del comunismo, anche questa evidentemente sostenuta da oltre confine. E alcune recenti rivelazioni che arrivano dai documenti desecretati del Foreign Office britannico sembrano confermare questo quadro. Tuttavia, scrive Gotor a proposito della cosiddetta “strategia della tensione”: «Sarebbe davvero semplicistico ritenere che abbia avuto una regìa unica sul piano internazionale. No, essa si configurò come una tecnica di azione condivisa ma l’attacco avvenne in modo concentrico e diffuso».

 

Molte mani sull’Italia, quindi. A chi appartenessero, a quali Stati, a quali organizzazioni, in quali fasi agirono, lo si può leggere scorrendo le pagine del libro. Con un’avvertenza, tuttavia: la strategia della tensione «non può e non deve essere racchiusa nella sua sola dimensione internazionale»: va presa in esame anche «la speciale capacità degli italiani di odiarsi tra loro… e la particolare disponibilità a mettersi al servizio dello straniero». Una disponibilità certo storica ma anche periodicamente rinvigorita dalle mancanze della politica e dei governi che si sono succeduti nel tempo.

 

E qui torna la questione, non secondaria, della giustizia. Che in Italia ha operato con effetti diversi: se si è fatta abbastanza chiarezza sul terrorismo rosso, che si affrontò in maniera prima ambigua e poi unitaria e univoca solo nel periodo successivo all’uccisione di Moro, quando le Br monopolizzarono la lotta armata intensificando in maniera esponenziale le loro azioni, molta meno chiarezza si è fatta sul periodo delle stragi e sulla loro reale matrice. Se all’inefficienza della politica, dunque, si aggiungono i «comportamento omissivi, reticenti o depistanti di una parte degli apparati dello Stato» — i quali, ricorda Gotor, «dovrebbero essere pagati con i soldi dei contribuenti per tutelare la loro pubblica sicurezza» e non già con la finalità di «destabilizzare per stabilizzare» il Paese — e una violenza, in quegli anni più che mai, «innervata nell’azione quotidiana» si capisce, sempre secondo l’autore, come si sia radicalizzato, in milioni di cittadini, quel «sentimento di sfiducia, di impotenza e di disillusione nell’azione collettiva e di disimpegno e di ripiegamento nel privato che avrebbe inevitabilmente condizionato la stagione politica, civile e culturale» successiva. 

 

Quella stagione che si aprì simbolicamente, secondo lo storico, con la vittoria inebriante della nazionale italiana ai Mondiali di calcio del 1982, quando un intero Paese scese in strada per ridere e cantare dopo aver troppo pianto: un rito per celebrare la fine appunto del “secolo breve 1966-82” e l’inizio dell’era del disimpegno ma non della pace. Perché «è come se nel corso degli anni ’70 — scrive Gotor — una mano invisibile avesse scavato un’enorme trincea ideologica e militante, da cui sarebbe continuato a sgorgare a lungo del giovane sangue d’Italia, a bella posta alimentato, subito poi dimenticato: una ferita rimossa e perciò mai cicatrizzata che proprio per questa ragione potrà tornare un giorno a sanguinare di nuovo». Ecco, questa è una buona ragione per rileggere quelle vicende. E magari, anche alla luce dell’attualità, per porre le basi culturali di una pacificazione che non è mai avvenuta perché una guerra è finita senza mai essere stata (ufficialmente) dichiarata.

Fonte: L’Osservatore Romano – 19 ottobre 2022