Il virus più dannoso è la burocrazia che soffoca e limita la nostra vita.

L’iperproduzione normativa finisce per imprigionarci e per complicare maledettamente il senso delle cose, poiché le parole nuove finiscono inevitabilmente per procrastinare ogni chiarimento. Avviene pertanto che tutto si presenti come un continuo rimando del provvisorio da perfezionare. E questo ci rende insicuri.

A forza di elaborare costrutti mentali con i quali vorremmo favorire il progresso e semplificare le nostre relazioni sociali finiamo per incrementare una deriva di iperproduzione normativa che ci imprigiona. Dobbiamo regolamentare tutto, prevedere tutto, pianificare, salvare i diritti di ciascuno e per far questo costruiamo una babele di regole che spesso finiscono per cozzare tra loro e allora ne inventiamo altre per correggere, dirimere  incomprensioni, conflitti , per riempire i vuoti che si creano quando risolvere sulla carta un problema finisce per generarne uno nuovo. Invece che ingolfare apparati, istituzioni, semplice vita quotidiana di adempimenti, cose da fare, obblighi e divieti dovremmo fare l’opposto: svuotare, semplificare, ridurre, usare il buon senso comune, parlarci senza sotterfugi, essere sinceri con noi stessi e con gli altri.

Diceva San Tommaso che il mondo va avanti, progredisce, è migliore se gli uomini si dicono reciprocamente la verità: il fatto che ciò non sempre accada ci porta a stabilire che siamo alla ricerca di una oggettività nelle cose finendo per trascurare l’importanza delle variabili soggettive. Si deve fare così e poi così e poi ancora così: ma per quanto si pensi a programmare i giorni i mesi e gli anni della nostra vita, viviamo il pensiero divergente, la fantasia, la libertà, persino la digressione come un peccato. Tutto diventa maledettamente complicato perché siamo noi stessi che cercando il meglio, la perfezione delle cose, il progresso ad ogni costo finiamo per circondarci da condizionamenti che ci rendono insicuri e ansiosi. 

Il Prof. Alberto Mingardi, accademico, Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni, collaboratore del Corriere della Sera, ogni sabato propone un libro da scoprire e da leggere, cercando tra quelli dimenticati o ingialliti negli archivi delle biblioteche, per valorizzarli. La sua rubrica l’ha intitolata così: “Salvare i cocci della società aperta e altre illusioni”. Il libro di questa settimana è…Giuseppe Berto, Colloqui col cane (1968), Venezia, Marsilio, 1986, pp. 172. Lo cito perché calza a pennello con il discorso sulle incomprensioni che ci rendono vicendevolmente impenetrabili: uno per essere ascoltato finisce per parlare con il suo cane e magari scopre che in quel modo si ritrova davanti allo specchio a parlare a se stesso. Si domanda Mingardi come uno scrittore possa dialogare con il suo cane, ad esempio di politica e di massimi sistemi (il libro è di quell’anno epocale che fu il ’68) ma finisce per dedurre “che uno dei maggiori scrittori italiani dovesse immaginare di discutere di questi temi col suo animale domestico ci dà l’idea di quanto poco propensi ad ascoltarlo fossero i bipedi”. 

Egli estrapola dal libro una definizione della burocrazia che calza a pennello con i dilemmi esistenziali con cui ho aperto questa sommessa riflessione: a volte è inutile cimentarsi in elucubrazioni ingannevoli o sovrabbondanti  quando puoi trovare chi prima di te e meglio ha scritto la sintesi che ti porta a chiarire ciò su cui ti interroghi.

Scrive dunque Giuseppe Berto: “Invero lo Stato per primo si rende conto che il costo della propria amministrazione è biasimevole: i pubblici funzionari, molti dei quali stanno insediati in uffici superflui, costano troppo. Allora che ti fa? Istituisce un ministero per la riforma burocratica, ossia un complesso di burocrati che mettono in moto la macchina burocratica per ridimensionare la burocrazia. Qui l’errore, forse, è che si presume troppo dagli uomini, giacché succede che i burocrati, con tutte le buone intenzioni magari, finiscono per potenziare se stessi, per rendersi ancora più inaccessibili e inattaccabili, per crearsi carriere più rapide e remunerative”.

Ecco, questo è ciò che continua ad accadere ancora oggi. E’ una visione sommativa della vita che ci porta ad aggiungere parole per spiegare altre parole, ad elaborare leggi che chiariscano quelle precedenti perchè erano  incomprensibili, senza rendersi conto di creare un accumulo, aggiungendosi:  il virus della burocrazia si inocula negli apparati e nei costrutti mentali di cui ho scritto in esordio e finisce per complicare maledettamente il senso delle cose, poiché le parole nuove finiscono inevitabilmente per procrastinare ogni chiarimento, è tutto un continuo rimando del provvisorio da perfezionare. C’è sempre bisogno di soluzioni perfette e già scritte: non lo saranno mai, purtroppo, e questo – se non ragioniamo con la testa e amiamo con il cuore – finisce per condizionarci, a volte rovinarci la vita.