Immaginare città

Dopo la pandemia, un futuro urbano diverso si impone

Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Paolo Perulli

La grande fuga dalle città si è materializzata nel corso del 2020 in forme incerte, provvisorie, selettive. I quartieri ricchi di New York e di Milano si sono svuotati, con i residenti trasferiti nelle seconde case nel verde. I lavoratori in remoto sono rimasti a casa, spesso nell’hinterland o nelle città di residenza, prossime alla metropoli. La mobilità si è ridotta nelle città e tra le città, ma soprattutto la business community viaggiante sui treni ad alta velocità si è dissolta. Il trasporto aereo è crollato. Interi settori dell’economia sono stati congelati e come nel caso del turismo, della cultura e del divertimento, forse non torneranno più come prima, ponendo seri interrogativi all’economia creativa delle città che vive di contatti e di interazioni dirette e all’ampia sfera del consumo culturale di massa. Le imprese di punta si sono arrese, e poi velocemente riconvertite ai nuovi mercati della prossimità (AirBnB ha spostato la sua offerta verso le residenze suburbane), quelle del digitale e del delivery hanno moltiplicato addetti e utili (come Amazon, che ha aumentato gli addetti da 800.000 a 1.200.000 in pochi mesi). Il mondo urbano si è fermato, poi è ripartito molto lentamente e senza una precisa direzione.

Dove andranno a vivere le classi creative, gli analisti, i software developer, i ricercatori, i lavoratori intellettuali che sono il fulcro dell’economia dei Paesi avanzati? A Milano, Torino e Bologna le classi creative e le figure funzionali alle classi creative superano il 40% della popolazione residente. Si approfondirà la tendenza di una simile popolazione urbana a vivere online nei sobborghi o in zone remote, una specie di “villaggio globale” di McLuhan che ritorna di attualità? Nel 2021 il 100% del valore finanziario dell’economia degli Stati Uniti d’America sarà fatto di brevetti, algoritmi, software e proprietà intellettuale. Dove vivranno questi soggetti protagonisti del capitalismo immateriale?

Uno schema interpretativo della grande crisi pandemica in corso dovrebbe rispondere a queste domande. Un esempio è l’approccio, schematico seppur sofisticato, di geografi e urbanisti. Per chi come loro pensa la società come un campo di gioco di forze di attrazione e di agglomerazione, la pandemia è una delle tante evenienze cui le città ancora una volta sopravvivranno: e saranno come sempre le città globali – New York, Londra, Los Angeles, S. Francisco, Toronto a Occidente; Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore a Oriente – a guidare la rincorsa.

Queste interpretazioni ignorano il polo microsociale del comportamento umano, quello privilegiato dalla psicologia e dalla sociologia interazionista. Esse riguardano i comportamenti psichici soggettivi e la vita nervosa degli individui, quella che Simmel studiò per la metropoli di inizio Novecento. Il «distacco» del tipo blasé, il suo riserbo nei confronti della folla metropolitana assumono oggi un valore profetico, una tragica attualità. L’individuo della metropoli è oggi schiacciato dal sapere oggettivo incorporato nelle grandi strutture e infrastrutture che gli si rivolgono contro: le vetture claustrofobiche della metropolitana e gli shopping mall pieni di folla diventano la principale fonte di rischio.

Le scienze esatte della fisica, così come l’epidemiologia medica e la ricerca clinica, misurano curve e andamenti dell’epidemia in ciascuna città e regione, ma non colgono gli aspetti interpretativi, comportamentali, sociali che queste grandezze esprimono. Sarebbe necessario un modello circolare che sappia unire fattori economici-oggettivi ed extraeconomici-soggettivi.

Fattori oggettivi e soggettivi li ritroviamo uniti nella società del rischio globale. La moltiplicazione dei rischi, la Risikogesellschaft annunciata da Ulrich Beck oltre trent’anni fa, si è materializzata con un crescendo: nei catastrofici cambiamenti climatici planetari, nel rischio finanziario che coinvolge tutti, nella caduta in povertà di ampi strati di ceti medi e bassi, infine nella prima pandemia per sua natura globale. La radice di questi rischi è comune. È il capitalismo nella sua «fase estrema»: quella attuale, in cui i fenomeni globali rendono impossibile circoscrivere le fonti del rischio, come invece era possibile nelle società nazionali e locali del passato.

Questa nuova configurazione pone al centro la dimensione globale assunta dal rischio e la sua attuale «incalcolabilità». Siamo lontanissimi da quando il rischio era calcolabile da un agente economico, da un governo, da una famiglia. La finanziarizzazione globale e l’economia delle imprese globali – le due entità che hanno sostituito la sovranità degli Stati – hanno contribuito a globalizzare il rischio. Il debito che esplode in un punto qualunque del sistema si propaga a tutto il mondo, esattamente come avviene con la pandemia e con la crisi ecologica. Siamo sull’orlo di una completa trasformazione dell’economia: il cambiamento climatico obbliga gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna. Ciò significa che investire oggi in un’impresa o in un Paese comporta un rischio incalcolabile: non sappiamo cosa avverrà a causa del cambiamento climatico in quell’economia nazionale, quell’impresa, quella città. Saranno state inondate o distrutte dalla siccità, saranno state colpite da mutamenti irreversibili?

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