di Antonio Payar
Nei giorni scorsi “Il Domani d’Italia” ripubblicava un profetico intervento di Achille Ardigò, del gennaio 1995, su quattro – a mio avviso permanenti – limiti della prassi politica dei cattolici italiani; il quarto riguardava l’accontentarsi della testimonianza elitaria, “della rassegnazione ad essere “eterni perdenti” – diceva Ardigò – “perchè non disponibili al rischio e alla sofferenza della seria imprenditorialità politica con personale ispirazione di fede, nel reale mondo degli interessi e dei valori”.
Lungi dall’attribuire potere di guida (che deve rimanere dotazione della Fede) alla realtà per come è, tuttavia questa resta banco di prova. E, si sa, pur portandosi dentro la visione del Tabor tuttavia scendendo si incontra molto traffico, e se lì c’è un pericolo non è il mondo in sé ma il sentirsi investiti del diritto di aggiustarlo in quanto ‘preparati’ e ‘intelligenti’ (un’autoinvestitura, insomma; un po’ come se i Dodici fossero stati selezionati dalle migliori scuole rabbiniche della Mishnah…).
Nel Testamento Paolo VI, circa il mondo, invita a non farsi guidare dai “gusti” del tempo, e per contrastare ciò richiama uno spirito di servizio che consiste nel capacitarsi delle cose (studiare) e nell’amarle (non c’è verso cambiare una cosa sparandole contro). Tutto lascia pensare che uno dei temi portanti del dopo-Covid sarà e resterà quello delle migrazioni, degli immigrati, dei richiedenti asilo, dei rifugiati, dei ‘clandestini’ o irregolari o mezzi regolari o definiti tali, ecc. ecc. Perché, come scriveva già nel 1997 Umberto Eco, “se vi piace, sarà così; e se non vi piace sarà così lo stesso”.
Allora bisogna dire che un tratto caratteristico della quasi totalità del mondo cattolico è far girare una costante retorica pauperista del tema ‘Immigrazione’. O anche, se si vuole (è un lato della stessa medaglia), del tema della ‘povertà’ sensu lato, che almeno se fosse più studiata ci si potrebbe accorgere che non ci sono solo quelli che ‘non arrivano-a-fine-mese’ ma anche quelli, i più, che sono fuori da ogni possibilità cognitiva e che quindi, anche senza quei cattivoni dei giganti della Rete, sono in balia del primo imbonitore populista che gli formatti il cervello.
Il XXIX Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes 2020 si intitolava “Conoscere per comprendere”, 254 pagine scaricabilissime da internet. Com’è possibile allora che in buona parte del mondo cattolico, e addirittura (se non soprattutto) in tanta intellighentia cattolica, girino troppo spesso molti luoghi comuni?
Se si trattasse di sola questione intellettuale, pazienza, ognuno prende i granchi che crede. Ma qui la questione è un’altra e non riguarda tanto gli immigrati, le definizioni con cui chiamare chi sbarca, il tipo di accoglienza o respingimento, etc.: la questione riguarda gli autoctoni, gli italiani, chi insomma dovrebbe ‘accogliere’. Ha ragione, e non si può che concordare pienamente, Mons. Gian Carlo Perego quando giorni fa è intervenuto sugli accordi con la Libia e sul dovere che non può avere limitazioni di salvare vite umane in mare (Carola Rackete e il resto).
Bene. Continuo però a trovare non carente ma moltissimo carente l’attenzione, la consapevolezza che tra l’accogliente e l’accolto la questione dirimente è la relazione.
Sono stato con il Prefetto di Prato Giuseppe Pecoraro (1995-2000) all’origine della nascita dei Consigli territoriali per l’immigrazione (c’erano trentamila cinesi e ci inventammo un primo tavolo per parlarne), ho fatto parte della Commissione per le politiche di integrazione presieduta da Giovanna Zincone (c’era la Turco), sono stato Esperto Cnel per l’Immigrazione IX Consiliatura, nell’O.N.C. con Giorgio Alessandrini, insomma un po’ ne so. Allora: quando si fanno con l’Unar recenti sacrosante battaglie contro le discriminazioni razziali nei luoghi di lavoro, propongo di definire ‘buone pratiche’ quelle che non rispondono a protocolli arzigogolati (andrà a finire così anche con la sostenibilità: vincerà il proceduralismo) ma al fatto che stabiliscano e sviluppino una relazione umana, dignitosa, onesta, amicale se possibile, fra entrambi i soggetti. ‘Buono’ vuol dire ‘buono’ per entrambi; ed ‘inter-esse’ è una cosa che sta nel mezzo, che collega e mette in comunicazione due esseri, due esistenze.
“Conoscere per comprendere” (e chi com-prende include; ovvio: anche la Complessità ineliminabile del nostro tempo) dovrebbe far rifuggire da facili letture, luoghi comuni, moralismi asfissianti.
Non è vero, ad esempio, che scappano i poveracci e basta; molto più spesso, ad esempio, di quel che non racconti la vulgata emigrano coloro che se lo possono permettere e il cui nucleo famigliare d’origine struttura un progetto di uscita e di rientro, con una ratio.
Insomma, non basta sollecitare compassione a buon mercato verso poveri ed indigenti, occorre ripartire da ciò che è più trascurata: la relazione.
Chi vuol salvare le tigri del Bengala non mette al centro le tigri ma il loro habitat. Chi vuole atteggiamenti anti-discriminatori e accoglienti mette al centro chi deve accogliere, che al participio presente fa ‘accogliente‘, cioè un’azione in corso. Così, per dispiegare un processo di accoglimento non bastano protocolli e controlli, ma suscitare l’interesse a vedere il gran guadagno di azioni plurilaterali anziché unilaterali.
Ma se chi dovrebbe accogliere deve arrangiarsi da solo è difficile poi chiedergli di essere tollerante, comprensivo ed illuminato. Si farà illuminare da Salvini, no?!
Per questo aveva ragione Ardigò: a noi servono più animatori di aree periferiche che élite da simposi. Si continua a lavorare troppo poco sui nostri ragazzi, gli accoglienti di domani e le forze fresche per rivoluzionare le cose.