Articolo pubblicato nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Eraldo Affinati

Cinquant’anni fa, il 21 ottobre, moriva Jack Kerouac, distrutto dall’alcol e da una vita di sprechi. Avvenne a St. Petesburg, in Florida, dove si era da tempo trasferito. Aveva quarantasette anni. Quando non viaggiava, restava a casa, a Lowell, in Massachusetts, sotto gli occhi e la protezione della madre Gabrielle, da lui chiamata mémêre, mammina, in omaggio alle radici famigliari francesi. È stata Ann Chartes, nella sua pur contestata biografia (Vita di Kerouac, Mondadori, 2003), a rivelare la dimensione solitaria e introversa del grande scrittore americano: dissoluto quanto basta per lasciar supporre chissà quali profanazioni e tuttavia cattolico fin nel midollo, al punto da scoprire lui stesso la matrice religiosa di “beat”, inteso, nella radice latina, come “beato”.

Dunque la “beat generation”, nel filtro finale della Vanità di Duluoz, questa sorta di “autobiografia delle autobiografie”, altro non sarebbe stata che una schiera di santi maledetti, angeli caduti, vagabondi del Karma, per l’appunto, tutta gente ossessionata dal mito del sentiero, dalle ombre contorte dei sotterranei, sì, ma con l’idea del ritorno stampata sempre bene in testa, soprattutto nei momenti più bui, quando ciò pare impossibile. Proprio allora risplende fisso sul ribelle il sogno del Big Sur, l’eremo estremo in bilico sull’oceano, dove intonare il concerto mesto del pellegrino penitente nell’aria salmastra e nebbiosa che annichilisce persino il desiderio più sfrenato. Ecco uno dei grandi fraintendimenti della letteratura novecentesca: aver creduto che On the road, il romanzo che più di ogni altro ha messo in scena gli ideali trasgressivi dei giovani, fosse l’inno al superamento degli steccati, alla libertà quale delirio e smarrimento, e non invece, come tutte le vere Odissee, una sostanziale celebrazione, certo dissimulata, infinitamente differita, del focolare domestico.

Per rendersene conto basta leggere il finale, nel momento in cui il protagonista, reduce dalle traversate coast to coast da New York a San Francisco, da cento avventure e bevute colossali, torna finalmente a Manhattan e, in una sera estiva e languente di falene notturne, appena vede una finestra illuminata non trova di meglio che gridare a perdifiato senza speranza di venire ascoltato. «Ma una graziosa ragazza sporse la testa dalla finestra e disse: “Sì, chi è?” “Sal Paradiso” risposi, e sentii il mio nome risuonare nella via triste e solitaria. “Venga su” m’invitò lei. “Sto facendo la cioccolata calda”». Termina così l’epica nomade del cavaliere disarcionato. Avete forse dimenticato i giorni di primavera che precedono una grande partenza, quel profumo di menta, o la sua idea, prima di giugno, una carta Michelin completamente aperta sul pavimento e il ragazzo che c’è dentro ognuno di noi in ginocchio a disegnare con la matita un possibile itinerario? Allora è giunto il momento di rileggere On the road, capolavoro di giovinezza, di vuoto, di vita. Siamo pronti, per l’ennesima volta, eppure sembra ancora la prima. Vagoni ferroviari pieni di barboni che si riscaldano le mani, torte di mele e mocassini indiani, tante belle fanciulle a Des Moines, uscendo da scuola.

Un gruppo di amici scalmanati pronti a seguirci persino in capo al mondo e comunque di sicuro nel selvaggio West, nel regno dei distributori di benzina scintillanti come diademi nel buio desertico. Le strade percorse da Dean Moriarty, redivivo Peter Pan braccato dalla sua stessa vitalistica inconcludenza, restano incise nelle adolescenze di molti fra noi: lo vediamo entrare dal cancelletto del giardino di fronte con gli occhi arrossati, la camicia fuori dai pantaloni, una barba lunga di tre giorni. Bussa, si presenta e dice di venire da New York, senza essersi mai fermato solo perché voleva vedere di quale colore fosse in aprile l’Oceano Pacifico. «Amico, vuoi venire a fare un giro sulla mia Cadillac? Ti porto giù fino a San Diego e poi ce ne andiamo in Messico».

Dean sembra completamente folle, ma in realtà vibra in lui la passione mortificata di chi non si accontenta e intende forzare la propria finitudine. Soprattutto ci affascina il suo rapporto con Sal Paradiso, l’alter-ego di Jack Kerouac. Si tratta di due persone dal carattere opposto e complementare: un vitalista e uno scrittore. Immaginate una versione modernista dell’amicizia fra Tonio e Hans, nel Tonio Kröger di Thomas Mann. L’individuo sprofondato ciecamente nell’azione e l’artista contemplativo che pure si lascia trascinare dal compagno. Il comandante e lo stregone. Entrambi si cercano e nutrono uno verso l’altro una speciale soggezione, un reciproco timore, di cui è tessuto il romanzo. Fra le poetiche apparentemente inconciliabili dell’estancia e della pampa, come avrebbe detto Jorge Louis Borges, pare impossibile scegliere: da una parte il conforto e la protezione assicurata dai fuochi caldi della fattoria; dall’altra il fascino irresistibile delle pianure sconfinate dove si perde il gaucho. Ricordo quando un giorno di Natale arrivai nella stazione degli autobus di Città del Messico: era un terminal strepitoso che mi sembrava di aver già visto da qualche parte anche se non capivo quando e dove, dal momento che per la prima volta ci capitavo.

Le insegne “Autobus americanos” con le scritte Chicago, Los Angeles, New York mi elettrizzarono. Una grande Madonna di Guadalupe troneggiava nell’atrio affollato, in mezzo al presepe. Libri, gelati, valigie, una lirica animazione. Stavo cercando l’autobus diretto alle Piramidi quando d’improvviso compresi il mio dejà vu: era la memoria della pagina di On the road, nel momento in cui Sal Paradiso sta per tornare a New York. C’era anche qualcosa di Malcolm Lowry, ugualmente attratto da quel capolinea d’umanità in transito. Questo per dire fino a che punto la letteratura intensifica la vita. La orienta, talvolta la determina. Come se il nostro spirito ci spingesse oltre, là dove i sensi si bloccano. Ma in quali anfratti trovava Jack Kerouac la forza che gli consentiva di giungere a tale potenza rappresentativa? Certo dal suo talento, peraltro pagato a caro prezzo, come tutto nella vita, perché ciò che abbiamo bisogna conquistarlo, ma se dovessi trovare un precedente letterario, intendo la voce assoluta di riferimento tonale, direi Stendhal. Lo stile tutto in prima battuta, da codice civile, come è stato detto, del grande scrittore francese, riecheggia in Kerouac alla maniera di una musica lontana: da lì nasce la magia del rotolo in cui venne composto On the road. E così il disorientamento di Fabrizio del Dongo nel campo di battaglia di Waterloo, descritto nelle prime pagine della Certosa di Parma, rivive nei giri oziosi del trump americano, fin quando in Satori a Parigi, alla ricerca degli avi, arriva in Bretagna. E ci racconta, ancora una volta, il dramma e l’amore dell’uomo solo.