La Candidatura di Carlo Calenda, se sarà confermata, ha il pregio di far fare un salto di qualità al dibattito sulle candidature a Sindaco di Roma.
La candidatura – oggettivamente, al di là della personalità e dello stile mediatico, di cui espressione “Cult” è la avvincente parodia -imitazione di Crozza- è comunque autorevole e pone anche la questione delle alleanze da costruire per vincere una scommessa realmente progressista e di centrosinistra nella città che invevitabilmente, come Capitale d’Italia, sarà al centro delle attenzioni elettorali e mediatiche del 2021.

Finora la danza era stata furbescamente guidata dalla Sindaca uscente che con una mossa sorprendente, ma poi non tanto, aveva annunciato la sua ricandidatura “ad oltranza” (cioè al di là di ciò che il Movimento cinque stelle voglia decidere al riguardo).
A fronte di questa ricandidatura, non molto supportata dal lavoro fatto (diciamo così….non mi piace maramaldeggiare…) e mentre sul Pd da un lato (il partito che vinse le elezioni precedenti con Ignazio Marino e che ne è stato protagonista anche della sua caduta anzitempo), così come sulla destra incombente, continuavano a volteggiare le nubi dell’ incertezza, una miriade di consiglieri comunali, municipali e regionali oltrechè qualche deputata o senatrice hanno autocertificato la propria disponibilità a misurarsi in primarie convocabili entro la fine dell’anno. Piuttosto anzitempo rispetto alle necessità, e dunque più per “calmierare” il mercato delle autocandidature, piuttosto che per una scelta “vera”.

Occorre allora, per essere corretti e puntuali, precisare alcune cose prima che il prossimo “step” abbia luogo, come ormai accade, più sui media che tra la popolazione cittadina.
Che Virginia Raggi si ricandidi, va riconosciuto, è innanzitutto cosa buona in un panorama degli enti locali e regionali dove è insorta – non spesso, ma è divenuto comunque non infrequente- l’abitudine a non misurarsi col proprio possibile consenso dopo un primo mandato: non pochi Presidenti di regione e Sindaci passano ad altra carica prima di finire il mandato ed evitano così il giudizio popolare sul loro operato.
Va detto che ci sono anche casi in cui il buon operato non ha garantito il Sindaco o il Presidente uscente, sulla base di un voto elettorale spesso condizionato da fattori “esterni” come i trends di voto nazionali o avvenimenti eccezionali di natura politica o più spesso mediatica, ma almeno in questo caso essi non si sottraggono al realismo (ed agli insegnamenti) di una sconfitta immeritata.

Su questa scelta di Virginia Raggi pesa certo anche l’oscurità del suo “dopo”; una oscurità che fa tutt’uno con la mentalità del movimento Cinque Stelle che finora ha rifiutato di farsi “partito” e di stabilire un “cursus honorum” come se fosse un’onta imparare a fare i conti con l’amministrazione della “Res Publica” e utilizzare le capacità acquisite nell’impegno che dovrebbe essere di servizio al bene comune.
Virginia Raggi sente che non ha molte chances in altri impegni futuri e conosce la “macchina” comunale romana. Ritiene perciò di farsi “misurare” e semmai di utilizzare le sue capacità (o meno) in questo campo politico. E’ una scommessa che potrebbe vederla impegnata in territori (coalizioni, alleanze, scontri tra partiti) sconosciuti a lei e al M5S, e questo va detto.

Poiché sia Salvini che la Meloni guardano alle prossime elezioni politiche nella speranza di succedere alla leadership di Berlusconi, hanno per ora annunciato che non si impegneranno direttamente, il che fa prevedere, ad oggi, che con una Sindaca uscente in terza posizione saranno centrodestra e centrosinistra senza “pesi massimi”, a confrontarsi ed i due schieramenti potrebbero prevalere, l’uno sull’altro, sulla base di un confronto risaputo e già visto (e qui si vedrà di che capacità politiche future dispone Virginia Raggi…).

Questo ha generato la spinta a candidarsi di molti, soprattutto nel Pd, invocando le primarie e scommettendo almeno sulla sicurezza di avere un posto privilegiato di “osservatore diretto” ( ed una sorta di “diritto di tribuna”) anche in caso di sconfitta alle primarie.

Non avrebbe altro senso la candidatura di personalità politiche rispettabili ma oggettivamente senza alcuno “standing” (spiccata personalità riconosciuta a Roma e in Italia visto il ruolo della Capitale e forse – se si riesce a recuperare – anche in campo internazionale) per aspirare davvero al ruolo di Sindaco.
Ecco perché la candidatura di un ex Ministro della Repubblica che ha fatto bene il Ministro e che comunque ha riconosciute capacità organizzative e manageriali; riconosciute dal campo avverso, riconosciute dal mondo imprenditoriale e sindacale e capace di una visione generale sul piano del Paese, oggettivamente è una buona notizia. Per la competizione in sé.

Qui vengono i nodi al pettine di due questioni che circolano e che Lucio D’Ubaldo ha riassunto nella sua riflessione: come costruire una alleanza di centrosinistra che vinca a Roma e con quale programma, prima di eventuali primarie, prima che gli annunci colmino i vuoti della politica.

Sull’alleanza, non c’è dubbio che un fuoriuscito dal Pd non possa suscitare grande calore in chi è rimasto; ma Calenda non sta forse nell’area di centro del centrosinistra, che proprio Goffredo Bettini indica come un’area da riorganizzare per vincere?
E d’altronde se c’è un Pd che più di tutti ha pagato la fine del sogno veltroniano dell’inclusione, che dette vita al Pd nel 2007, è quello di Roma: la vicenda Marino, con il sì a luglio 2012 e poi il no di Zingaretti (ancora da spiegare bene…), la candidatura del medico-senatore e la sua vittoria nelle primarie su Sassoli e Gentiloni (in ordine di.Apparizioni televisive dell’epoca…); infine la vicenda della Sindacatura Marino con una fine “extra Aula Giulio Cesare”) ha reso il Pd romano attuale abbastanza afono ed acefalo anche in presenza degli organi ricostituiti dopo il commissariamento Orfini (che certo non è stato “ricompattante” per il Pd romano, tutt’altro).

Pare chiaro che al di là di ogni polemica il Pd ha un marchio che, a Roma, da solo non può funzionare…dunque se non è Calenda, sarebbe qualcun altro, ma difficilmente si può fare a meno di altre forze politiche per quanto minoritarie o “antipatiche” (e la politica non si fa con le simpatie e senza fare i conti sulle alleanze).

C’è poi la questione del programma. Un programma politico, non una sequela infinita delle necessità di Roma che sarebbero troppe da elencare e che con la disgraziata Sindacatura Raggi sono aumentate di numero.
Un programma politico deve porsi questioni che anche le pur benemerite Giunte Rutelli o Veltroni non affrontarono sino in fondo, forse preparando così il cammino alla inopinata sconfitta con Alemanno. In primis la decentralizzazione: ogni aspirante Sindaco la promette ed una volta eletto la sconfessa pensando di governare tutto dall’Arx Capitolina. Bisogna fare davvero e trasferire poteri comunali, bilanci e personale ai Municipi. In secondo luogo, e deriva da questo appena detto, la riorganizzazione delle decine di migliaia di dipendenti comunali o paracomunali, specie in tempi di crisi economica pre e post pandemia. In terzo luogo, una razionalizzazione delle circa 80 aziende comunali, in termini economici, gestionali e di direzione politica (si va dalla beneficienza ad aziende quotate in borsa….così non si può continuare). E a seguire tutto il resto dei problemi sociali (il paradosso di abitazioni sfitte e decine di migliaia di senza casa, per esempio) economici e culturali di una città che dovrebbe essere all’avanguardia della innovazione tecnologica e del “green deal” e potrebbe esserlo vista la rete di servizi e di aziende di servizi anche innovativi; che ha e che negli anni novanta dello scorso secolo la portò a superare perfino Milano e Torino in innovazione e crescita.
Ci sarà tempo per parlare di programma ma ciò che Lucio D’Ubaldo segnala correttamente e mi preme cogliere e sottolineare è che programma politico (priorità) e alleanze, di per sé sono buona parte dell’identikit di un candidato possibile proposto alla coalizione di centrosinistra per vincere a Roma.

In questo senso anche la candidatura di Calenda – sempre se confermata – è partita male, come tante scelte politiche di questi anni confusi (e infelici) ma perlomeno ha il pregio di fornire automaticamente un obbligo a confrontarsi con un pensiero sistemico e metodico sulle necessità della politica e sulla necessità di dibattere di alleanze. E tutto questo prima di primarie, che debbono essere della coalizione, non di un solo partito (se si punta a vincere, certo).

Non sono tra quelli che sa cosa si deve fare ad ogni costo a Roma. Non ho obblighi di partito dal 2018. Ma da cittadino romano che un po’ ha masticato, negli anni, di politica credo che siamo arrivati ad un punto in cui questa città ha bisogno di un cambio vero di paradigma perché o si riprende oppure il declino sarà irreversibile per anni e anni.
Di certo non possiamo permetterci un’altra Raggi o una gestione alla Alemanno. Perciò mettiamo da parte i fastidi e lavoriamo sul materiale che oggi la situazione ci offre. Si può solo migliorare.