La crisi del regionalismo e le strategie macroregionali nella dinamica europea

Dopo l’Unità, il Paese fu indirizzato verso la forma di stato accentrato. Grazie a Sturzo il tema delle Regioni ritornò ad interessare l’opinione pubblica. La Costituzione del 1948 ha creato uno Stato a base regionale, su cui ha operato nel 2000 la riforma del Titolo V. Oggi serve l’idea di un nuovo regionalismo.

Non c’é dubbio che tra le istituzioni territoriali che, secondo l’art. 114 della Costituzione, formano la Repubblica quelle che negli ultimi tempi hanno fatto discutere di più sono le Regioni. Basti pensare al dibattito in ordine: 1) al cd. regionalismo differenziato proposto dalle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ed ora fatto oggetto di un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri; 2) alla titolarità, a seguito dello scoppio della pandemia da covid 19, dei poteri di intervento in materia sanitaria rivendicati dalle Regioni anche contro ogni evidenza nazionale; 3) all’assetto cooperativo che sembra essersi consolidato nella governance del PNRR e delle sue 6 “misure” con la Cabina di Regia, partecipata alla fine non solo dalle Regioni ma anche dagli Enti Locali (Città metropolitane, Province, Comuni).

Insomma, nelle ultime due legislature, le istituzioni che hanno mostrato una indiscussa vitalità (per molti, in negativo) sono state le Regioni. Per questo trovo particolarmente ‘centrato’ il programma di questo V° Corso della Scuola di Formazione Politica della Diocesi di Mazara del Vallo e con piacere ho accettato di svolgere qualche considerazione per introdurre e (spero) dare un contributo al dibattito che, nel corso dei prossimi ‘incontri’, svilupperete.

La traccia scelta, per questo primo appuntamento, ci vincola a partire, come è giusto che sia, dalla nascita del regionalismo subito dopo la seconda guerra mondiale: prima, con il Regio Decreto Legislativo n. 455 del 15 maggio 1946, istitutivo della Regione Siciliana e, poi, con la Costituzione delle Regioni ordinarie e con le prime Leggi Costituzionali, entrare in vigore nel 1948,  delle altre Regioni speciali.

Ciò non deve indurre a pensare, però, che di questa istituzione innovativa (rispetto ai Comuni ed allo Stato e, financo, alle Province) si fosse cominciato a parlare solo dopo lo sbarco degli Alleati occidentali in Sicilia nell’estate del 1943. Di Regioni nel nostro Paese se ne dibatteva, infatti, fin dai tempi dell’unificazione dell’Italia, come alternativa sia al modello di ‘Stato accentrato’ che al modello di ‘Stato federale’.

Come è noto, però, con il prevalere della Destra storica il Paese fu indirizzato verso la forma di stato accentrato sul modello ‘napoleonico’ francese. Ne conseguì che, per quasi mezzo secolo, di regionalismo in Italia non si parlò quasi più. Tranne, naturalmente, in ristretti circoli culturali che con i loro dibattiti ne mantenevano viva la memoria. 

Fu con l’avvento sul proscenio della politica nazionale di don Luigi Sturzo che il tema delle Regioni ritornò ad interessare l’opinione pubblica fino al punto di far dichiarare al sacerdote di Caltagirone che il Partito Popolare, che egli stesso aveva fondato nel 1919, era nato proprio per trasformare lo Stato italiano accentrato in uno Stato regionale. Da allora, la prospettiva regionale fu all’odg dell’agenda politica del Paese: prima, per essere ferocemente combattuta dal fascismo e, poi, per essere adottata e realizzata dalla democrazia introdotta a seguito della lotta di liberazione nazionale e della Costituzione repubblicana.

In questa storia regionalista, allora, all’inizio – come accennato – ci fu la Sicilia. Che, consapevole della propria identità e dell’autonomia goduta nei secoli, per autogovernarsi all’indomani dello sbarco degli Americani a Gela, Licata e nelle altre località marine della sua costa meridionale, il 9 luglio 1943, insorse con un moto popolare per rivendicare l’indipendenza dallo Stato italiano e l’autodeterminazione dei propri Popoli.

La vicenda ebbe risvolti anche drammatici perché il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS) aveva due ‘anime’ al proprio interno e quella oltranzista, che premeva per una vera e propria secessione e che a un certo momento era prevalente, gli fece imboccare anche la strada militare dello scontro armato che fece registrare tutta una serie di episodi violenti e  di manifestazioni incontrollate che portarono all’eccidio di Randazzo (17 giugno 1945), dove furono massacrati il professore Antonio Canepa ed alcuni giovani militanti dell’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) ad opera di una pattuglia di Carabinieri appostata nei pressi del bivio per Bronte (Catania).

Comunque si siano svolti questi fatti (dei quali il quotidiano di Palermo L’Ora disse trattarsi di “Una strage di Stato”), dopo meno di un anno la Sicilia, il 15 maggio 1946, con Regio Decreto Legislativo n. 455 ottenne il proprio Statuto che ne riconosceva l’identità regionale e ne sanciva l’autonomia di governo all’interno della “nuova Costituzione dello Stato” con la quale il primo avrebbe dovuto essere coordinato.

E qui siamo all’Assemblea Costituente, che dopo la Liberazione (il 25 aprile 1945) del Paese fu eletta il 2 giugno 1946, ed alla Costituzione Repubblicana che, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, disegna una inedita “forma di Stato” che non consiste più in un unico ed accentrato soggetto di governo: lo Stato, appunto, ma, come dice l’art. 114, la Repubblica che è organizzata in Comuni, Province e Regioni.

Queste ultime costituiscono 20 enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione medesima. Nello specifico, 5 di esse (la Sicilia, la Sardegna, il Friuli Venezia Giulia, il Trentino/Alto Adige e la Valle D’Aosta) disponendo di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Mentre le altre 15 Regioni, a statuto cd. ordinario, invece, essendo organizzate ed esercitando le funzioni secondo quanto stabilisce il titolo V° della Costituzione. 

Ma quali sono questi poteri riconosciuti alle Regioni che, per il loro semplice verificarsi, hanno determinato lo stravolgimento della vecchia forma di stato unitario ed avviata la nascita della nuova organizzazione pluralistica della Repubblica? 

Com’é facile intuire, innanzi tutto e soprattutto, la  potestà legislativa che la Costituzione ripartisce ora tra lo Stato e le Regioni attribuendola anche a queste ultime secondo vari tipi che vanno dalla potestà esclusiva a quella concorrente, da quella integrativa a quella residuale (prevista dalla riforma del titolo V° operata nel 2001). Ad essa faceva complemento, poi, la potestà amministrativa, attribuita fino alla riforma della legge cost. 3/2001, alle stesse Regioni per le materie nelle quali avevano potestà legislativa (salvo per quelle di interesse esclusivamente locale attribuite dalle leggi della Repubblica ai Comuni, alle Province ed agli altri Enti Locali). A seguito della riforma costituzionale del 2001, invece, con il novellato art. 118 le funzioni amministrative sarebbero state attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, non fossero conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Inoltre, a garanzia della possibilità di esercitare questi poteri, si aggiungeva il riconoscimento dell’autonomia finanziaria  di entrata e di spesa con la connessa possibilità di stabilire ed applicare tributi ed entrate propri secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Insomma, una vera e propria ‘rivoluzione’ che purtroppo, però, forse per la sua innovatività, fu costretta a segnare il passo (tranne per le Regioni a statuto speciale) per ben 22 anni. Fin quando, cioè, il 7 giugno 1970 -dopo l’adozione della legge elettorale del 17 febbraio 1968 n. 108 e di quella finanziaria del 16 maggio 1970 n. 281 che ne rendevano possibile il funzionamento dell’intero apparato- si tennero le elezioni dei consigli regionali.

Con l’insediamento degli organi politici e l’organizzazione dell’apparato amministrativo, finalmente, le Regioni ordinarie si affiancarono a quelle speciali e cominciarono a funzionare rendendo completo l’ordinamento regionale della nostra Repubblica. 

Dopo un inizio indubbiamente pieno di fervore innovativo e voglia di cimentarsi con gli importanti problemi della grande legislazione del Paese, però, anche a causa della pervicace volontà dello Stato a mantenere intatte le sue prerogative di indirizzo politico e di comando regolativo della società, l’assestamento istituzionale delle Regioni si indirizzò verso una configurazione più da ente di amministrazione e gestione (delle decisioni assunte dallo Stato) che da soggetto di indirizzo politico e programmazione. Mancando così completamente di esercitare quella spinta innovativa non solo dell’apparato dei pubblici poteri ma anche della società civile che era stata alla base prima del loro riconoscimento in Costituzione e poi della loro concreta attuazione nell’ordinamento italiano.

Fortunatamente, a questa situazione sempre più inadeguata e deludente, reagì prima la cultura politico-istituzionale e poi la stessa politica, riscoprendo negli anni ‘90 del secolo scorso (con le famose leggi ‘Bassanini‘) il principio di sussidiarietà che, ribaltando la logica di attribuzione e distribuzione del potere, sottolineava che quello amministrativo potesse essere esercitato dalle Regioni soltanto qualora le Istituzioni locali (Comuni, Province, Città metropolitane) non si fossero dimostrate adeguate

Fu la spinta per riprendere il cammino innovativo dell’organizzazione dei pubblici poteri nel nostro Paese che, come detto, si concretizzò nella famosa riforma del Titolo V° della Costituzione operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 e nella modifica dei vari Statuti speciali. 

Con questi interventi le Regioni (assieme agli altri Enti locali) ritornarono al centro del sistema ma, come vedremo subito, facendo registrare un altro clamoroso flop.

Questa volta, però, più per responsabilità dello Stato e della politica nazionale che, approfittando di alcune incongruenze della stessa riforma costituzionale del Titolo V°,  cominciarono subito a remare contro riproponendo (con la l. 131/2003) un modello di governance accentrato, limitativo dei poteri legislativi delle Regioni, e soprattutto, dimentico dell’autonomia finanziaria, affidata ad una legge di delegazione (n. 42 del 2009) rimasta per buona parte inattuata.

A ciò bisogna aggiungere, poi, la giurisprudenza della Corte Costituzionale, restrittiva circa il riconoscimento di più ampi poteri alle Regioni, che in varie sentenze dei primi anni successivi alla riforma confermava l’orientamento dello Stato e delle maggioranze che lo reggevano.

Questo indirizzo sfociava inoltre in due tentativi di nuova riforma costituzionale sostenuti con forza e decisione da due maggioranze opposte che, però, fortunatamente venivano entrambi respinti dalla saggezza del Corpo elettorale con i referenda del 2006 e del 2016.

Le vicende ora ricordate scuotevano finalmente la politica regionale ed in particolare le Regioni del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna che, facendo riferimento alla dimenticata norma del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione che prevede la possibilità di attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolati di autonomia” in svariate materie elencate nel secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost., avviavano, sentiti i loro enti locali, la procedura per questo maggiore riconoscimento di poteri con legge dello Stato.

Solo che l’iniziativa: un pò per le incertezze procedurali palesate dal Governo nazionale e molto per l’impostazione sbagliata impressa alle loro richieste dalle Regioni che, inizialmente, ne avrebbero voluto fare (il Veneto e la Lombardia, in particolare) uno strumento per negare il di più di gettito finanziario che versavano alle casse dello Stato a motivo di una tassazione proporzionale al loro reddito interno, ha sollevato una vera e propria rivolta da parte di moltissime altre Regioni, in specie, quelle del Mezzogiorno che hanno visto in questa azione delle Regioni del Centro-Nord una mancanza di solidarietà nei loro confronti ed una volontà di chiusura alle necessità di rinascita del Sud e con essa dell’intero Paese. 

In definitiva, un boomerang che si è abbattuto sullo stesso Movimento regionalista che, poi, dall’azione di contrasto alla pandemia del Covid 19 e dal decisionismo indiscutibile dei Governi che si sono succeduti dal manifestarsi di quest’ultima, è stato ampiamente ridimensionato ed oggi sembra placato accontentandosi della semplice partecipazione alla Cabina di Regìa e all’attuazione delle missioni e dei progetti stabiliti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Purtroppo, però, senza abbandonare mai, da parte delle Regioni del Centro-Nord, il proposito di negoziare con lo Stato maggiori condizioni di autonomia differenziata. Circostanza, quest’ultima, che farebbe celebrare l’incapacità di ogni apporto originale del regionalismo al sistema dello Stato unitario e della Repubblica democratica e ne sancirebbe la fine per inettitudine a provvedere alle nuove esigenze dello sviluppo socio-economico del Paese e dei suoi Territori.

Invece, ciò che necessita è una nuova interpretazione del Regionalismo! Che non può  incentrarsi più, esclusivamente e neppure prioritariamente, sul profilo dei poteri di governance ma deve concernere innanzi tutto gli altri due ‘elementi’ fondamentali delle istituzioni regionali e cioè l’organizzazione dei territori e la condizione delle comunità che li abitano.

Come dimostra infatti anche la normazione europea con il suo sostegno alle strategie macroregionali, il regionalismo storico ha ormai esaurito la sua iniziale spinta innovativa dell’organizzazione dello Stato e una sua nuova fase propulsiva non può che essere data da Macroregioni funzionali poiché gli attuali perimetri amministrativi delle Regioni non consentono di risolvere alcun problema e, soprattutto, di gestire al meglio i servizi pubblici a favore della cittadinanza. In poche parole, perché le nostre istituzioni regionali sono troppe ed è necessario un intervento per accorparle in entità più adeguate alle funzioni che sono chiamate a svolgere.

In sostanza, è assolutamente necessaria una correzione delle delimitazioni territoriali definite dall’art. 131 Cost. perché le loro perimetrazioni sono errate sia sotto il profilo storico-geografico che cultural-funzionale. E ciò al fine di realizzare un’articolazione repubblicana che tenga conto anche dell’ormai irrinunciabile proiezione di queste Macroregioni nella dinamica europea.

Dinamica europea che naturalmente coinvolge le comunità per le quali un’articolazione frammentata sul territorio non è detto che sia sempre e comunque preferibile ad una aggregazione in più ampie collettività di individui che condividano una storia ed una condizione umana. Soprattutto in un Paese come il nostro assai differenziato per storia e realtà regionali,  così diseguale nei livelli di reddito e, come abbiamo visto, così diverso anche nelle scelte relative  ad una auspicabile nuova organizzazione regionale.

E qui voglio finire con un riferimento alla nostra sventurata Regione Siciliana! Che di tutta questa storia ‘regionalista’ e democratica è stata per un certo tempo prima protagonista ma ora sembra semplice spettatrice. Basti ricordare due dati inoppugnabili. Il primo che, in più di settantacinque anni dall’ottenimento dello Statuto di autonomia, la classe politica siciliana non ha mai provveduto ad aggiornarlo, a modernizzarlo ritrovandosi oggi con uno strumento giuridico quasi del tutto superato per confrontarsi e collegarsi alle altre Regioni ed allo stesso Stato (oltre, evidentemente, all’Unione Europea). Il secondo che, ormai da ben dieci anni (a seguito dell’approvazione della legge regionale 7 del 2013), un’istituzione territoriale come la Provincia riconosciuta dalla Costituzione come fondamentale per la Repubblica è retta in regime commissariale, essendo stati aboliti tutti gli organi regolarmente eletti, e quindi facendo registrare un vulnus irreparabile alla Democrazia (con la D maiuscola) che soltanto la nostra insipienza di cittadini distratti (?) può tollerare.

Come si può dunque dedurre: una terra quasi umiliata! Caratterizzata da un marcato disinteresse per i valori più importanti che costituiscono l’identità del Popolo siciliano dal quale sono derivate le politiche sbagliate che hanno determinato la disoccupazione dilagante, i ritardi nei processi di sviluppo ormai intollerabili, la falcidia dei nostri redditi (che non arrivano né meno alla metà di quelli dei cittadini delle Regioni del Nord), la fuga dei nostri giovani ed, in ultimo, la mancanza di speranza che spesso si percepisce nella nostra gente.

Una situazione, però, dalla quale dobbiamo venir fuori. Il mio augurio è che questo Corso possa costituire un piccolo ma significativo contributo in questa direzione!

[Testo dell’intervento svolto per l’inaugurazione del V° Corso della Scuola di Formazione Politica della Diocesi di Mazara del Vallo]

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