Con grande rapidità è cambiato lo scenario. Dopo il messaggio di Mattarella a fine d’anno, con quell’accenno fugace ma potente alla responsabilità dei costruttori, a sorpresa Papa Francesco interveniva per esaltare il dovere della politica a tenere unito il Paese. A parole si sono mostrati tutti un po’ d’accordo, assai meno nella pratica. Però nelle pieghe della società questo bisogno di maggiore coesione esiste, andando a modificare, passaggio dopo passaggio, il dna della vecchia dialettica politica. È un fenomeno che esige una interpretazione corretta, fuori dal tramestio di polemiche datate. In verità emerge una disposizione al contenimento del conflitto, in particolare come arma di difesa dinanzi alla ostinata condizione emergenziale. Pertanto, ampliare e non diminuire lo spettro delle convergenze politiche, questo dovrebbe essere il programma di un nuovo “partito della nazione”.  Per adesso lo si scorge, come altre volte rilevato, nell’ondeggiare di un sentimento che progredisce sulla lenta scia di una galassia extraparlamentare.

In agenda sta dunque la ricerca di un motivo costruttivo, evocativamente unitario nei limiti del possibile, da mettere in opera con generosità nell’interesse del Paese. Le ragioni degli uni e degli altri dovrebbero coesistere nel quadro di una rinnovata tensione solidaristica, senza con ciò pretendere di uniformare i diversi punti di vista. Certo, non è quello che vediamo profilarsi all’orizzonte dopo l’uscita dal governo dei ministri di Italia Viva. Lo strappo poteva essere evitato, in ultimo è trasceso nell’errore. Da mesi però le critiche di Renzi ponevano l’accento sulla insufficienza dell’azione dell’esecutivo; da mesi cresceva altresì la spinta a far chiarezza sulle scelte da compiere nell’ambito del Recovery Plan di Bruxelles. Dietro le quinte hanno prevalso i tatticismi, tanto da determinare un qualche logoramento della stessa immagine dell’Italia. Chi aveva più responsabilità ha preferito lucrare sulle contraddizioni, lasciando che impazzissero le cause del conflitto.  

Conte cerca di rivoltare il guanto della sfida mirando al disinnesco dell’offensiva scomposta del renzismo. Si può comprendere l’ardimento, ma non si tratta di un’impresa facile. Pur con l’ingresso in maggioranza di alcuni senatori al posto del drappello di Italia Viva, il governo continuerebbe a fare i conti con il fantasma della instabilità. Bisogna essere consapevoli che un gruppo di volenterosi non si trasforma in quattro e quattr’otto in un vero soggetto politico. Al momento, senza nulla togliere alla bontà delle intenzioni, sembra la scalata a una parete di sapone.  Manca un baricentro. Molto dipende dal felpato manovrismo del Nazareno, con l’appannemento del gruppo dirigente di un partito che i suoi costituenti avevano conformato attorno alla conquista di una futura sintesi riformatrice, fuori dalle gabbie ideologiche del Novecento. 

In realtà, da quelle parti, nel mondo che affonda le radici nella scissione di Livorno del 1921, circola sempre il virus politico dell’egemonismo. Zingaretti, svincolato da un obbligo di diplomazia, opterebbe volentieri per le elezioni anticipate, se non altro nella speranza di portare a casa una stabilizzazione purchessia dell’area di sinistra. Invece, data la premessa qui considerata, il problema più importante è la virtuosa o, meglio ancora, creativa stabilizzazione del Paese. Ora, fermo restando il richiamo del Papa, viene da chiedersi se l’iniziativa dei cattolici non debba misurarsi con questa esigenza di unità. Il salto della politica, per usare una formula che Benigno Zaccagnini aveva fatto sua, suggerisce al cristiano l’assunzione di un compito profilato sul binomio di autonomia e laicità, aperto alla coscienza del tempo da vivere ed amare, informato perciò a valori di condivisione. Il ritorno al popolarismo si carica di questa sollecitazione impregnata di concretezza e attualità.

Un segnale di cambiamento lo si attende, a giusta ragione, da più parti e con più energia. Perché Calenda, ad esempio, dovrebbe restare all’opposizione? Il suo discorso sulla “maggioranza von der Leyen”, anche se precoce in questa Italia tardo-bipolare, contribuisce a uno spirito di novità. La crisi di governo può essere chiusa guardando indietro o marciando in avanti: nel primo caso, basta semplicemente confidare nella magia dei numeri, in stretto ossequio alle regole della democrazia parlamentare; nel secondo, si tratta d’investire nella trasformazione del grigio consenso del tabellone parlamentare nella quadricromia di una nuova proposta politica. Solo questo può svincolare la vicenda politica di Conte, immersa nel lavacro della verifica e soggetta a necessarie aperture, dal rischio di una consunzione a fuoco lento. Ci vogliono idee e passioni per innervare il piano di rilancio, per essere al centro di uno sviluppo tutto nuovo, come fosse una pacifica rivoluzione, per giustapporre al sovranismo l’alternativa a più voci del solidarismo.