Nell’anno che il Pontefice ha  dedicato alla “cultura della cura” i problemi della sanità, della cura della persona, del territorio e dell’ambiente sono argomento centrale. 

La pandemia virale ha fatto conoscere le eccellenze del sistema sanitario lombardo,  la competenza e lo spirito di sacrificio dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero, ma ha anche messo in evidenza  fragilita’ e  carenze preesistenti l’evento. E’ il momento di assumerne piena consapevolezza, poiché la salute è un bene fondamentale previsto dalla costituzione, e  solo rimeditando sugli errori del passato è possibile  progettare il futuro .

 In questo periodo si è parlato soprattutto delle carenze della medicina di base, ritenuta in parte  responsabile  dell’eccessivo aggravio del sistema ospedaliero. La prospettiva dovrebbe essere estesa  a tutto il sistema dell’assistenza socio-sanitaria  territoriale, che negli ultimi anni  ha subito diverse modifiche, in una direzione per piu’ ragioni  problematica. 

Vale la pena  ricordare  la definizione che l’OMS ha dato della salute: si tratta di una condizione complessa,alla quale concorrono fattori di ordine psicologico, sociale, economico,ambientale. La sua realizzazione prevede  il contributo di diverse figure professionali oltre ai medici, ossia gli  infermieri  ,gli  psicologi, gli educatori, gli assistenti sociali, i farmacisti, i biologi , i tecnici di diverse aree.

A questi criteri era improntata la legge 833 del 1978, istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, che andava a sostituire il vecchio sistema mutualistico.  Ci sono state successive modificazioni legislative, con  relativi cambiamenti nell’organizzazione dei servizi, che potrebbero non risultare coerenti con tali principi. 

 Su questo argomento, facendo leva su di una recente memoria, sono state raccolte le testimonianze di operatori e dirigenti che hanno svolto parte attiva in alcuni di questi settori e possono quindi fornire una visione concreta del “lavoro sul territorio”.

Una breve premessa  consentira’ di inquadrare e comprendere meglio i diversi contributi.

 

La legge 833 del 1978, coincidente   con l’istituzione  delle Regioni a statuto ordinario,  comprendeva unitariamente le funzioni  di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Era basata sul decentramento istituzionale,sulla partecipazione, sul controllo democratico  e la collaborazione attiva con gli enti locali, i comuni.  Era stata preceduta dall’istituzione dei C.S.Z . (Consorzi Sanitari di Zona) con funzioni di prevenzione e sanita’ pubblica, trasformati in seguito  nelle Unita’ Socio-Sanitarie Locali (USSL). Inoltre era stato approvato il primo   piano regionale ospedaliero.

Nel 1985 vennero istituiti 15 Servizi di prevenzione, che divennero in seguito obbligatori su tutto il territorio nazionale, articolati in una serie molto vasta e complessa di funzioni e servizi.

Cambiamenti  progressivi  hanno avuto inizio  con la legge regionale n.31 del 1997, sino  alla legge 23 del 2015, istitutiva delle ATS ,ossia le  Aziende di Tutela della Salute.  L’unitarieta’ del sistema prevenzione-diagnosi-cura -riabilitazione è stato  interrotto in virtu’ dei  provvedimenti via via adottati . Il Dipartimento di prevenzione è diventato “Dipartimento di Igiene e Prevenzione Sanitaria”, con una limitazione consistente delle attività di prevenzione, e non solo . Non si è trattato quindi di un cambiamento  nominale, bensi’ strutturale, con il progressivo impoverimento della rete dei servizi territoriali  e  relativi tagli del personale.

A proposito di “cultura della cura”, da piu’ parti si sollecitano maggiori investimenti nella formazione  e opportuni adeguamenti dei piani di studio  e dei corsi di laurea. Vale allora la pena menzionare  le ricadute  sul piano delle abilità e delle competenze del personale , con il venir meno di uno “stile” di lavoro improntato al confronto e alla cooperazione reciproca, in una prospettiva di complessità e interdisciplinarieta’. 

L’effetto di questi processi puo’ essere colto in concreto, nell’immediato, a partire dalle categorie piu’ fragili ,come i minori e gli anziani, e di altre,  delle quali viene data testimonianza  nei contributi che seguono.                  

Nella mia prospettiva professionale, la pandemia consegna un quadro di incertezza diffusa, di paura, con l’aumento degli stati ansiosi , delle condizioni depressive e dei disturbi di ordine psicopatologico.

Appare significativo in questo senso il lavoro al quale ho partecipato all’interno dell’istituto psicoanalitico del quale sono socia, che ha per oggetto l’analisi dei sogni dei pazienti: ricorrono immagini di eventi luttuosi, di distruzione, di catastrofi naturali.

Parlano chiaro anche i risultati delle due indagini statistiche condotte  per conto del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi),,una precedente la pandemia, l’altra realizzata nel corso del 2020. Mi limito a citare l’esito  di uno dei quesiti, formulato in questi termini :

“Ha mai sofferto di ansia, depressione o altri problemi psicologici ?”

A questa domanda ha risposto affermativamente  una percentuale del 45% della popolazione di sesso femminile  e il 30% di quella maschile. L’indagine condotta l’anno successivo ha  evidenziato un quadro seriamente aggravato dall’impatto della pandemia, con un incremento di 10 punti percentuali  del livello di stress. 

Dal punto di vista degli   intervistati, l’assistenza psicologica andrebbe garantita dal servizio pubblico, e lo psicologo dovrebbe “…far parte delle risorse pubbliche del paese”.E’ un diritto  confermato confermato anche  dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) .

 Nella realtà, il numero degli psicologi arruolati nel S.S.N. è nettamente inferiore alla richiesta , e  la carenza non è solo di tipo quantitativo, ma qualitativo.

Per meglio intendersi, riguarda   gli aspetti organizzativi, la “messa a sistema” di questa figura professionale .  Come afferma il Presidente del CNOP, D.Lazzari: “…oggi gli psicologi sono dispersi nei diversi ‘silos’  in cui è organizzata l’assistenza territoriale, non hanno nessuna forma di coordinamento…e quindi,oltre a essere pochi di numero, non possono ottimizzare la loro presenza in modo trasversale, nei diversi livelli verticali o ambiti orizzontali”.
Queste considerazioni valgono anche per le altre professioni del profilo socio-sanitario, ossia medici, infermieri, assistenti sociali, educatori. L’emergenza- virus lo ha particolarmente evidenziato, in realtà si tratta di  un problema che  precede la pandemia e mette in luce un difetto del sistema.

Si è tornati a parlare dell’importanza della  rete dei servizi territoriali, cioè di un tipo di organizzazione all’interno della quale i  servizi presenti sul territorio risultano interconnessi, e i singoli operatori non agiscono in maniera  isolata, ma in costante reciproca interazione. 

Ne deriva un vantaggio significativo in modo particolare per un tipo di utenza definita “multiproblema”. Il paziente viene infatti collocato all’interno di un progetto di cura complessivo e coerente, studiato nelle diverse componenti, che gli risparmia ulteriori consultazioni e procedure burocratiche,talora confusive.

Per quanto riguarda operatori e professionisti, vorrei citare la testimonianza  degli psicologi scolastici, che  offrono l’esempio concreto di cosa significa operare in una condizione di isolamento, senza il supporto di rete.

 Ci si aspetta che lo psicologo scolastico intervenga principalmente nell’area dei disturbi dell’apprendimento. In realta’, secondo quanto dichiarato, le richieste che  provengono dalla scuola riguardano soprattutto problematiche che vanno dal bullismo alle dipendenze,dai disturbi del comportamento alimentare a una vasta gamma di disturbi evolutivi, sino  alle segnalazioni al Tribunale per i Minorenni: richieste alle quali è difficile far fronte senza  la collaborazione  degli  psicoterapeuti, degli assistenti sociali e di altre professionalita’.

Del lavoro sul territorio ho fatto esperienza in qualità di Dirigente Psicologa con Incarico Professionale di Alta Specializzazione, all’interno del Dipartimento di Salute Mentale,ove,oltre alle mansioni di specialistica, partecipavo attivamente al lavoro in équipe. 

Il fulcro era costituito dalla riunione quotidiana fra tutti i componenti, medici, infermieri, assistenti sociali, che non era finalizzata non a un  semplice “passaggio di consegne”, ma al confronto fra le diverse competenze, in un’ottica di complessità . Vi era  poi la riunione settimanale, con obiettivi  di formazione continua, riconducibili al paradigma della complessità : educazione alla riflessione, all’osservazione, al confronto e alla comunicazione.   

La prossimità al territorio è la caratteristica che vorrei porre in particolare evidenza. 

Essa era garantita dalle frequenti visite domiciliari compiute dai vari componenti dell’équipe. E’ una pratica che ha mostrato nel tempo tutta la sua efficacia, consentendo a molti pazienti di ricevere le cure nel proprio ambiente di vita, prevenendo le recidive, evitando il ricovero ospedaliero.

Si tratta di un sistema di lavoro che ho ritrovato in contesti istituzionali  molto diversi.

Ad esempio,presso l’Istituto Nazionale Tumori di Milano, ove   mi era stata conferita una borsa di studio finalizzata alla ricerca  sulle problematiche psicologiche dei malati oncologici,

l’attività domiciliare , in stretto collegamento con  la realtà ospedaliera, era portata avanti da équipes multiprofessionali  facenti capo a  una fondazione privata, la Fondazione Floriani.

Ho ritrovato questo sistema di lavoro  anche  oltreoceano, all’interno di progetti complessi e articolati, finanziati dal National Cancer Institute, presenti non soltanto in realtà di eccellenza dell’area californiana.  Molti erano una combinazione di assistenza domiciliare e di servizio “in-patients”, ossia prevedevano una soluzione residenziale, costituita da apposite stanze e posti-letto messi a disposizione da ospedali , case di cura, cliniche di riabilitazione, e assistenza domiciliare. Miravano a consentire al malato di ricevere le cure nella propria abitazione, continuando a condurre una vita il piu’ “normale” possibile,  a prevenire il rischio dell’emarginazione connesso alla malattia e i danni dell’istituzionalizzazione troppo prolungata.

Un’offerta assistenziale di questo tipo dovrebbe essere garantita anche a tutta la popolazione anziana. Le cure date a domicilio consentirebbero infatti a molti  di conservare i legami familiari e sociali, di mantenere l’abituale stile di vita, evitando l’istituzionalizzazione nelle R.S.A, non sempre motivata dalla presenza di patologie croniche degenerative.