La disoccupazione in Italia è ancora oltre il 10% e la più preoccupante è quella giovanile e femminile. Bisogna affrontare la disoccupazione con una prospettiva differente, collegandola alla evoluzione del lavoro e alla preparazione con una formazione scolastica e permanente che vadano oltre i modelli fin qui consolidati.

Tra le lezioni apprese risalta la differenza fra il lavoro protetto (dipendenti pubblici, dipendenti stabili, professioni socialmente indispensabili) e il lavoro precario, in nero, a tempo parziale, con funzioni nuove ma ancora non normate, ecc.) Al netto dei Need (che comunque si dovrebbero liberare dalla loro condizione che li espone ancora più ai margini) l’ uscita dalla pandemia e il patto next generation eu. devono vedere la politica e
i legislatori impegnati, senza avere tregua, sulle soluzioni possibili e poi percorrerle senza indugio fino al completamento delle riforme necessarie. Devono sentirsi impegnati insieme a tutte le parte sociali e ‘non riuscire a dormire’ se non si sono offerte occasioni di lavoro perché nessuna famiglia soffra la fame.

Abbiamo negli occhi le file di persone umiliate, davanti ai centri caritatevoli, per accedere a un pasto o a un cesto di alimenti? Mi capita spesso, proprio in questo tempo e a causa del dramma di moltissime famiglie, di pensare a quanto poco strategiche siano state le scelte dei decenni precedenti (anch’io allora parte della classe dirigente del Paese) volte a modernizzare (?) e a risparmiare, senza comunque contenere il debito che si espandeva in modo eccessivo, con la soppressione delle festività, con l’abolizione del servizio militare obbligatorio, la eliminazione della medicina scolastica, con la rimozione dei bigliettai sui mezzi pubblici, ecc. Il risultato: diminuite le possibilità di screening generalizzate per fasce giovanili con l’integrazione culturale fra i giovani di tutte le Regioni e di imparare un mestiere (si sarebbe potuto semplicemente ridurre a pochi mesi la ferma), lasciando andare in rovina un grande patrimonio edilizio e ridotto il reddito di molte località dove erano site le caserme; eliminata una preziosa occasione di prevenzione generalizzata nelle fasce scolastiche; venuta meno la sicurezza sui mezzi pubblici e il controllo dei biglietti; non abbiamo più visto i vigili di quartiere, ecc.

Quante occasioni di lavoro. Forse, avessimo potuto contare su qualche algoritmo, sarebbe risultato che era più conveniente mantenere quelle attività piuttosto che sopprimerle. Anche prima della pandemia, il Paese appariva diviso in tre grandi categorie di lavoratori. Una composta da lavoratori di alta qualifica o comunque tutelati e privilegiati che non hanno visto la loro posizione a rischio. Una seconda categoria di lavoratori in settori o attività a forte rischio o comunque con possibilità di azione ridotta è entrata in crisi: commercio, spettacoli, ristorazione, artigiani, servizi. Un terzo gruppo è rappresentato dai disoccupati, dagli inattivi o dai lavoratori irregolari e coinvolti nel lavoro nero che accentua una condizione disumana di sfruttamento. Sono gli ultimi, in particolare, ad aver vissuto la situazione più difficile perché fuori dalle reti di protezione ufficiali del welfare. Va anche considerato il fatto che il Governo ha bloccato i licenziamenti, ma quando il blocco verrà tolto la situazione diventerà realmente drammatica.

Perciò ora la situazione va letta con lo sguardo lungo e alto, per recuperare tutte le energie e le risorse utili alla ricostruzione ‘postbellica’, che la pandemia ha bloccato e depresso. Inserire nella produzione di beni e servizi le categorie ancora escluse comporta una diversa
organizzazione sociale, a partire dalla centralità da attribuire alla famiglia. La normativa vigente è ricca di tutele diversificate per categorie ma non armonizzate ed anzi spesso conflittuali, causando anche ulteriori diseguaglianze. La prima fra tutte la sperequazione stipendiale fra uomini e donne e le difficoltà di carriera di queste per il carico dei tempi di vita e di lavoro. Lo smart working è sembrato l’uovo di Colombo per superare tali difficoltà. Invece ha reso il lavoro continuativo – h24! – con i risparmi solo di altri.

Il part-time, i congedi familiari, il lavoro da casa, i lavori stagionali, i ‘nuovi‘ lavori non catalogabili necessitano una grande innovativa concertazione con le parti sociali perché serve un ‘reset’ della cultura lavoristica. Oggi ci sono fasce sia pure tutelate sindacalmente inferiori per numero ai pensionati rappresentati. Quante riforme delle pensioni abbiamo subito! È tempo che si ponga mente alla parte della vita di coloro che lasciano il lavoro. Può essere che valga per tutti lo stesso limite di età? Non potrebbe essere utile che sia volontaria l’uscita dal lavoro? Sarebbe utile ascoltare gli psicogeriatri che raccontano cosa significa, in termini di salute, l’abbandono delle attività per certe categorie di cittadini. L’intelligenza artificiale aiuta l’analisi delle situazioni, i pro e i contro, poi tocca alla politica e ai sindacati assumersi la responsabilità delle scelte. Gli artigiani lamentano l’assenza di lavoratori in determinati settori (mancano circa 150.000 panettieri); gli imprenditori segnalano una pericolosa mancanza di addetti informatici, eppure sembra che i giovani si dedicano principalmente ad attività del settore informatico, ecc. Non si potrà concertare il futuro del lavoro senza la collaterale riforma della scuola e dell’Università perché i percorsi formativi dovranno rispondere alla visione di Paese. Ricordiamo per esempio che in 5 anni andranno in pensione 45.000 medici ed è cronica la mancanza di infermieri.

Si tratta di individuare priorità rigorose che consentano di raggiungere la piena occupazione. E questa deve essere libera dalle inacccettabili morti bianche e da alcune modalità di moderno schiavismo, come il caporalato. Gli asili nido e le scuole materne gratuite sono servizi essenziali e indispensabili per recuperare la occupazione femminile. Le priorità costringono a pianificare gli investimenti nazionali e a non ripetere scelte improvvide e sconclusionate, che hanno bruciato le risorse degli Italiani: dobbiamo dimenticare i miliardi finiti nel buco nero Alitalia? E per l’ILVA, perché non si dato corso alla soluzione programmata dai precedenti governi?
Col Recovery fund, sappiamo che saranno messe in campo molte risorse per completare o attivare nuove infrastrutture compresa finalmente la digitalizzazione. Ci vergognano un po’ di come sono state affrontate in passato questi ambiti indispensabili per il futuro del Paese?

Decine di anni per costruire ospedali che la pandemia ha svelato essere ancora solo scheletri; decenni per concludere il Mose, ma sembra abbia già bisogno di manutenzione. È ovvio, se fra progettazione e fine lavori trascorrono decenni! Vediamo molti cantieri sparsi per il bel Paese, fermi la notte e durante le feste: perché? Ormai non godiamo più del ‘settimo’ giorno di riposo e perfino i centri commerciali sono aperti h24. Recuperare tempo serve anche a risparmiare risorse perché non lievitano i costi.

Secondo l’associazione dei costruttori edili sono ben 739 le opere bloccate per un valore che si aggira intorno ai 72 miliardi. Ma non solo. A queste cifre si aggiungono quelle relative ai tempi di realizzazione. ”In genere per realizzare una grande opera da noi ci vogliono in media 15- 16 anni. L’Europa ci chiede di farlo in 5 anni. Dobbiamo dare operatività e regole che riducano gli iter burocratici concentrati sulla fase di gara e sull’individuazione di opere da commissariare ma non sulle procedure a monte della gara nelle quali si annida il 70% dei ritardi”. È più importante dare lavoro agli Italiani che sostenere una italianità che non ha senso nella globalizzazione e con la appartenenza alla casa comune europea.
“Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi” ci ha avvertiti Papa Francesco.