La dottrina Trump

Anche Trump ha dunque una sua dottrina. E pure una dottrina chiara e ben definita; meno opaca o cangiante di quelle di molti suoi predecessori.

Già pubblicato sulle pagine della rivista Treccani a firma di Mario Del Pero

Ogni amministrazione ha una sua dottrina di politica estera. Perché è costretta in vari documenti pubblici, oltre che nei discorsi presidenziali, a definire una propria visione delle relazioni internazionali e dell’interesse nazionale. E perché le dottrine servono non solo a fissare le coordinate di massima della politica estera, ma anche a convincere l’opinione pubblica interna e, nel caso del soggetto egemone, quella mondiale della bontà del proprio approccio e della propria filosofia. Sono, in altre parole, artefatti discorsivi: strumenti con cui costruire l’indispensabile consenso attorno alle proprie strategie e azioni.

Anche Trump ha dunque una sua dottrina. E pure una dottrina chiara e ben definita; meno opaca o cangiante di quelle di molti suoi predecessori. Quali sono i pilastri, categoriali e operativi, di questa dottrina Trump? In estrema sintesi, ne possiamo individuare cinque, tra loro strettamente intrecciati.

Ostentato e dottrinale realismo

Il primo è il suo ostentato e dottrinale realismo, secondo cui quello internazionale è un contesto anarchico, nel quale ogni soggetto cerca di sfruttare la propria potenza per massimizzare i propri interessi in un contesto intrinsecamente competitivo: in un “gioco a somma zero”, dove l’equilibrio ultimo è garantito dal fatto che al successo di una parte corrisponde ipso facto la sconfitta di un’altra. Nella retorica trumpiana, col suo vocabolario ipersemplificato e le sue schematizzazioni binarie, queste categorie realiste appaiono in continuazione. Ma questo è vero anche per i principali documenti strategici dell’amministrazione. La National Security Strategy (NSS) del dicembre 2017 è puntellata di riferimenti alla competizione di potenza con Cina e Russia e alla necessità di ripristinare la piena sovranità degli Stati Uniti: «La competizione per il potere», vi si afferma, «è una costante centrale della storia … siamo impegnati a difendere la sovranità dell’America». Analoghe considerazioni si trovano nella National Defense Strategy (NDS) del 2018, che individua tre competitori (e minacce) fondamentali per gli USA: le potenze revisioniste come Cina e Russia, gli Stati fuori controllo (rogue states) come Corea del Nord e Iran e le minacce terroristiche transnazionali. Il quadro descritto nella NDS rimanda anch’esso ai pilastri categoriali e all’argot basilare del realismo: il contesto globale, afferma il documento, si contraddistingue per «il riemergere della competizione strategica e di lungo periodo tra le nazioni».

Nazionalismo non-eccezionalista

Il secondo elemento della dottrina Trump è il suo nazionalismo non-eccezionalista. Questo è probabilmente uno dei maggiori elementi di rottura del trumpismo. Un discorso scopertamente, e spesso rozzamente, nazionalista non si accompagna alla consueta rivendicazione di eccezionalità degli USA. In discontinuità con tutti i presidenti del dopoguerra, con la sola parziale eccezione di Nixon (1969-74), Trump rigetta l’idea che vi sia una naturale convergenza tra gli interessi statunitensi e quelli del resto del mondo o una superiorità etica degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali. Il suo non è un nazionalismo universalista e, appunto, eccezionalista. In un sistema anarchico e competitivo non vi sono differenze tra i suoi attori, come Trump ribadì candidamente durante un’intervista con l’ex giornalista di Fox New Bill O’Reilly; quando O’Reilly accusò Putin di essere un “assassino”, il presidente offrì una risposta scioccante: «cosa credi», disse «che il nostro paese sia così innocente?».

Unilateralismo

Il terzo elemento, per molti aspetti scontato, è l’unilateralismo (e qui le somiglianze col Bush post-11 settembre sono assai marcate). Nell’arena internazionale non vi è utilità alcuna nel lasciarsi imbrigliare dentro i meccanismi multilaterali delle organizzazioni internazionali, che limitano la potenza del soggetto dominante, si fondano sulla fittizia pretesa di uguaglianza degli Stati e sono spregiudicatamente sfruttati da quei soggetti, Cina su tutti, che a vincoli e regole riescono a sottrarsi. Di qui la preferenza per informali negoziati bilaterali o per azioni unilaterali; di qui il disinteresse ad usare forum e istituzioni internazionali (tanto che nella disputa con la Cina, l’amministrazione Trump non ha fatto uso dell’arbitrato dell’Organizzazione mondiale del commercio, utilizzato invece a più riprese sia da Bush Jr. sia da Obama).

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