La frattura tra città e campagna nella politica americana.

Ogni Stato, a prescindere dalle sue dimensioni, elegge due senatori e il piccolo Wyoming (neanche 600.000 abitanti, solidamente repubblicano) conta quanto la California

Articolo tratto dalla rivista Atlante di Trccani.it a firma di Mario Del Pero

Quello tra aree metropolitane e zone rurali, con le mille sotto-partizioni che se ne possono fare, è uno dei fondamentali cleavages politici e sociali del nostro tempo. Lo vediamo bene in tutte le società più avanzate. Ma è negli Stati Uniti che questa frattura si è fatta col tempo più radicale e manifesta. Negli USA la densità abitativa – prima e più di reddito, istruzione o condizione professionale ‒ è diventato il parametro fondamentale che ci permette di prevedere e misurare le scelte di voto. Maggiore è tale densità – maggiore è la natura urbana del contesto elettorale – e migliore è il risultato dei democratici. La minor densità avvantaggia invece i repubblicani, in una spirale – e in una polarità – che si è fatta vieppiù acuta e ineludibile. Una polarità, questa, presente in tutti gli Stati, anche quelli dove più netto e indiscusso è il primato di un partito sull’altro. Nel 2016, per fare un banale esempio, Trump ha vinto il Texas con ben 9 punti percentuali di scarto rispetto a Clinton, subendo però una pesante sconfitta in tutti i principali nuclei metropolitani e ottenendo tra il 15 e il 40% in meno nelle contee di Houston, Dallas, Austin e San Antonio. Sempre in quella tornata elettorale, circa un terzo degli elettori di Clinton risiedevano in aree urbane, contro appena il 12% di chi votò Trump. Il presidente ottenne però più del doppio dei voti (63 a 21) della sua avversaria nei distretti non metropolitani, fatti di paesini di piccole dimensioni e zone esplicitamente rurali. Mille altri esempi e statistiche potrebbero essere offerti, dai 34 distretti congressuali classificati come “puramente urbani” ora interamente in mano ai democratici (nel 2018 i repubblicani hanno perso l’unico che controllavano, l’11° di New York) ai riverberi che tutto ciò ha anche sulle elezioni locali, con i democratici che controllano ormai la larga maggioranza delle città statunitensi. L’ultima tornata elettorale del novembre 2018 ha confermato in modo quasi caricaturale questa partizione. I democratici hanno costruito il loro largo successo principalmente sottraendo voti (e seggi) repubblicani nelle aree suburbane, più o meno popolate – questo è vero –, ma la correlazione tra densità abitativa e risultati elettorali è stata straordinariamente marcata: secondo una banale quadripartizione del Wall Street Journal ‒ in aree urbane, suburbane, piccoli centri e zone rurali ‒ i democratici avrebbero vinto le prime 67 a 30, i repubblicani le seconde 60 a 37 (entrambe, aree rurali e urbane corrisponderebbero a circa un quinto dell’elettorato complessivo).

Le matrici di questa frattura sono diverse ed essa sembra al contempo riflettere e acuire i crescenti livelli di polarizzazione politica, culturale ed elettorale del Paese. Vi è un evidente gap economico in una società deindustrializzata e di terziario avanzato come quella statunitense, dove la ricchezza tende sempre più a concentrarsi nelle grandi città. Di nuovo, i dati del voto 2018 ce lo rivelano in modo paradigmatico, con i distretti elettorali vinti dai democratici che contano per il 61% del PIL nazionale, contro il 37,5% di quelli vinti dai repubblicani. Tutti gli indicatori di cui disponiamo ci mostrano non solo – cosa ovviamente nota – che ricerca, sviluppo economico e progresso tecnologico tendono a essere fenomeni primariamente urbani, ma anche che il gap occupazionale tra aree metropolitane (piccole e grandi) e aree rurali (più o meno densamente abitate) si è ampliato in modo assai marcato nel decennio successivo alla grande crisi del 2007-08. Sempre scandagliando il voto del 2018, scopriamo che il PIL per lavoratore dei collegi vinti dai democratici era di circa il 22% superiore a quello dei collegi repubblicani e il reddito medio per nucleo famigliare del 15%. Una maggiore ricchezza che però è meno equamente distribuita, visto che è nelle grandi città che si concentra anche una forza lavoro impegnata in occupazioni a bassa qualifica (ristorazione, pulizie ecc.) e nella quale sovra-rappresentate sono alcune minoranze, in particolare quella afroamericana. Queste minoranze, lo sappiamo, votano primariamente democratico, contribuendo così a rendere ancora più accentuato il cleavage (secondo i dati di cui disponiamo, nel 2018 il voto afroamericano è andato 90 a 9 ai democratici e quello ispanico 69 a 29). Ed è proprio questa convergenza urbana tra popolazione con livelli d’istruzione alti e medio-alti, e condizioni professionali e di reddito conseguenti, e minoranze ed immigrati recenti, occupati in servizi a bassa qualifica (e retribuzione) che – in una società fattasi vieppiù socialmente liberal ‒ avrebbe dovuto creare una strutturale “maggioranza democratica”, come sostennero ormai quasi 20 anni fa John Judis e Rui Teixeira in un famoso (e a dispetto di tutto ancor utile) libro, le cui previsioni furono poi smentite da varie tornate elettorali.

Questa maggioranza strutturale e permanente non lo è mai diventata. E ciò – assieme alle mille contraddizioni di città fattesi sempre meno vivibili per chi non abbia redditi alti o altissimi – ci mostra alcuni evidenti cortocircuiti politici prodotti dalla crescente frattura economica e politica fra metropoli e campagna, zone metropolitane e aree rurali. Due, in particolare, meritano di essere menzionati.

Il primo è che il sistema politico statunitense inflaziona il valore dell’elettore degli Stati meno popolati, nei quali la mobilitazione viene peraltro spesso spinta dal risentimento nei confronti delle città corrotte, parassite e speculative, affidandosi a uno stereotipo dalle radici storiche profonde, ancorché discutibili (oggi le aree rurali sono spesso pesantemente sussidiate grazie alle risorse generate in quelle urbane). Ogni Stato, a prescindere dalle sue dimensioni, elegge due senatori e il piccolo Wyoming (neanche 600.000 abitanti, solidamente repubblicano) conta quanto la California (quasi 40 milioni di abitanti, vinta nel 2016 da Hillary Clinton con 30 punti percentuali di scarto). Le aree meno densamente popolate valgono quindi in proporzione molto di più al Congresso, al Senato appunto e in una certa misura anche alla Camera a causa della distribuzione meno efficiente dell’elettorato democratico, che, come abbiamo visto, tende a essere eccessivamente concentrato nelle aree metropolitane. Così come contano maggiormente alle elezioni presidenziali, dove il sistema dei grandi elettori (senatori più rappresentanti) rende alcuni Stati più “pesanti” di altri: per rimanere alla (facile) comparazione tra Wyoming e California, alle presidenziali il voto degli abitanti del primo vale quasi quattro volte più di quello degli abitanti della seconda. Gli effetti sono assai marcati in un sistema a crescente polarizzazione geografica come quello statunitense ed è indicativo che dal 1992 a oggi i repubblicani abbiano vinto il voto popolare in una sola occasione, nel 2004, quando peraltro Bush poté sfruttare l’onda lunga dell’11 settembre e di ciò che ne seguì.

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