Articolo pubblicato sulle Pagine dell’Osservatore Romano

Incontro Ciriaco De Mita il 31 gennaio, festa di san Giovanni Bosco, e alla fine della nostra conversazione l’ex-presidente del consiglio, 92 anni da compiere proprio due giorni dopo, mi dice: «La Chiesa dovrebbe ripartire dall’educazione, come facevano i salesiani, aprire scuole ma non per l’insegnamento, bensì per l’educazione, cioè per quell’arricchimento globale della persona nel segno della libertà. L’insegnamento rischia spesso di diventare qualcosa che cala dall’alto, soffocando la libertà».

Tutto il resto della nostra chiacchierata è in qualche modo riassunta in questa battuta finale, perché è la libertà il cuore dell’avventura umana e quindi anche della politica. Gli chiedo di Sturzo, l’anno appena trascorso ha segnato il secolo dal famoso Appello ai liberi e forti, ma lui parte dalla sua esperienza personale e la riflessione diventa un viaggio nella memoria:

Penso al Partito popolare di Sturzo — spiega — come a una tentazione a riflettere sulla politica in maniera sorprendente. Questo sin dall’inizio. Ricordo che c’era la guerra d’Africa e io avevo sette anni quando ascolto il bollettino alla radio che annuncia la vittoria dell’Amba Alagi in modo trionfalistico, la gente in paese parlava della conquista di una montagna d’oro. Io accompagnavo mio nonno che aveva le cataratte inoperabili e ricordo le sue parole che poi mi hanno segnato, ed erano le parole che riecheggiavano quelle dei Papi, di Benedetto XV e poi di Pio XII: «Con la guerra tutto è perduto, con la pace nulla è perduto». Quando nel 1940 fu dichiarata la guerra ricordo le manifestazioni dei giovani universitari tutte a favore della guerra, ma io seguivo mio padre che era diventato antifascista assieme ad altri tre o quattro nel paese. A Nusco intanto erano arrivati dei confinati politici, i quali avevano il dovere di farsi riconoscere dai carabinieri, la mattina alle dieci e il pomeriggio alle cinque, subito dopo venivano nella bottega di mio padre, chiudevano le porte e cominciavano a farla, la politica. Io avevo qualche difficoltà: non ero d’accordo sul fatto che per mandare via il fascismo bisognava perdere la guerra, questo oggi è difficile da capire ma all’epoca la patria era una cosa sacra, per questo ero in crisi, volevo combattere la guerra senza mettere in discussione il re ma poi dopo tre notti senza dormire mi convinsi. Poi la guerra finisce e insieme anche la monarchia, in quel periodo risorgono i partiti politici e la Dc e il Pci non erano contrapposti, le cose cambiano alla fine del 1947 quando si rompe la solidarietà di governo e si fa la campagna elettorale per l’elezione del 18 aprile 1948. Ricordo che dovevo fare l’esame di licenza liceale, ma dal mese di febbraio ho sospeso gli studi per andare in giro per fare comizi in tutto il territorio della diocesi. Fu un passaggio delicatissimo e il risultato per nulla scontato visto che il Partito comunista e quello Socialista avevano una capacità organizzativa maggiore della Dc. Ci venne incontro la Chiesa, furono inventati i comitati civici con Gedda che incarnava però una posizione clerico-moderata che si scontrò presto con l’opinione diversa dei democratici.

Cerco di riportare la discussione sulla figura di Sturzo:

Ho scoperto Sturzo soprattutto dopo, all’inizio degli anni ’80, quando ho cominciato a leggere tutta la sua opera. Con Sturzo ho avuto un rapporto non lineare, all’inizio non avevo per lui una particolare simpatia, per la sua posizione all’interno della Dc, il fatto è che lui era di un’altra generazione e per i giovani democristiani era stato fondamentale l’incontro con Maritain attraverso la mediazione di Montini, il futuro Paolo VI.

Qual è la forza della sua lezione per il tempo di oggi?

Sturzo mette in piedi un partito dopo averci pensato, è dal pensiero che scaturisce la forma concreta del partito politico, un’esperienza che è sempre collegata a una riflessione e le due cose camminano insieme: esperienza e riflessione. È ancora attualissimo il suo rapporto con la Chiesa, di piena fedeltà ma al tempo stesso di rivendicazione dell’autonomia della politica. Quando comincia l’esperienza politica Sturzo spiega che cosa vuole dicendo che la Chiesa cattolica è universale mentre la politica è sempre particolare, il partito è appunto una parte, e ha sempre mantenuto questa posizione. È l’ispirazione religiosa che lo porta a quel suo pensiero di fondo per cui in politica un problema si risolve ma nel momento stesso da un problema risolto se ne crea un altro, a differenza della sinistra che all’epoca pensava che tolta la proprietà privata tutto sarebbe stato risolto. Questo atteggiamento lo portava a riflettere sul fatto della pluralità di posizioni distinte, per lui (e per me) la contraddizione è segno di vita, è proprio per questo che il pensiero deve incarnarsi, diventare fatto, e ciò può avvenire se possiede una ricchezza di motivazione elevandosi dalla dimensione meramente particolare. Era poi un uomo che possedeva una dimensione internazionale della politica e che intuiva, al tempo stesso, proprio nell’autonomia del territorio la condizione della libertà e della crescita. In tutto questo e altro consiste il suo pensiero politico, il più alto che ci sia stato nel ’900, il che non significa che sia un pensiero definitivo, ma è piuttosto un modo di pensare, un metodo, quasi il rifiuto di un pensiero definitivo, definitorio, apparentemente capace di risolvere tutti i problemi ma per questo inevitabilmente ideologico e astratto, che calava dall’alto nella storia concreta delle vicende umane. Il popolarismo che Sturzo ha elaborato è un po’ come la medicina: essa aiuta a vivere ma non ha la pretesa di rendere immune l’uomo dalla malattia. Si aiuta il corpo a creare le condizioni dello sviluppo ma senza violentarlo, lo si accompagna nel rispetto della libertà, sapendo che la malattia non è mai debellata una volta per tutte. 

Un De Mita quindi sturziano al cento per cento, anche oggi?

Oggi più di ieri. Questa mia fede nel popolarismo, il senso forte della laicità della politica, mi ha portato in passato ad avere una storia un po’ controversa con il mondo cattolico e con il clero. Eppure rivedendo la mia esperienza posso dire che non ho mai messo in discussione la fede cattolica e devo dire che nell’ultimo periodo, merito anche di questo Papa che ha liberato il cristianesimo dalla lettura solo culturale, ho rivisto la mia opinione, scegliendo un atteggiamento meno critico che spinge invece verso una sempre maggiore attenzione alla dimensione religiosa, una dimensione può apparire come una cosa che frantuma e separa ed è invece un fermento che fa crescere la spiritualità e quindi anche la libertà politica. Oggi più di ieri la politica per me è finalizzata al mettere insieme le persone, è una forma di aiuto, è questo sforzo a metterci insieme per l’arricchimento e la crescita della dimensione spirituale, per combattere la miseria materiale e morale e la solitudine delle persone; metterci insieme direi per riscattare anche un mondo cattolico che ha vissuto quasi come un’inerzia la grandezza degli ultimi Papi, adagiandosi su di essi.

La riflessione su Sturzo e il suo essere anti-ideologico mi ricorda quello che dice Papa Francesco che parla del cristiano come «l’uomo dal pensiero incompiuto».

Sono d’accordo se con questa espressione si vuole sottolineare il dinamismo della realtà umana. Io dico “il pensiero diventa fatto” che è come dire una ruota con il motore perché nel momento in cui si fa fatto apre a un nuovo e non c’è una posizione vera che domina. Questo dinamismo insomma non si risolve, non si raggiunge mai una perfezione definitiva, nella storia. Vedo la storia come cammino, come processo e la politica come accompagnamento dei processi storici. 

La conversazione riprende il filo della memoria e si affacciano diversi personaggi, ad esempio il cardinale Martini.

Quando divento nel 1982 segretario della Dc era un periodo difficile per il mondo cattolico, c’era stato l’anno prima il referendum sull’aborto, un’aria di rottura tra il partito e la gerarchia ecclesiale. Io giravo molto per l’Italia ed ero messo in difficoltà dai vescovi e dai sacerdoti su questo tema, poi arrivo a Milano, incontro Martini e gli espongo la mia difficoltà e lui mi fa: «E tu allarga il discorso sulla vita!», fu per me di grande aiuto e conforto.

La memoria lo porta a ricordare la sua “avventura cilena”:

Qualche anno dopo, nel 1984, vado in Cile e mi incontro con i democristiani del paese. C’è la prima manifestazione dei giovani, era il periodo di Pinochet, mentre andavamo alla manifestazione c’erano con me Piccoli e Rumor che mi consigliavano prudenza. Quando arriviamo in piazza però la parola più gentile che sentivamo era «assassino», insomma finisce che io scendo assieme ai ragazzi in piazza, era la prima volta in vita mia che scendevo in piazza a protestare. Arrivano i carabinieri, picchiano qualcuno, ma fu per me una grande esperienza e così qualche tempo dopo ho aiutato i democristiani e quando a Pinochet venne l’idea di fare il referendum, noi organizzammo una raccolta di fondi (si pagava per votare) e così tanta gente poté votare e Pinochet perse il referendum. Fui invitato di nuovo alla manifestazione ed ero là sotto il palco e ricordo che venne un cantante degli Inti Illimani che quando era in Italia cantava in manifestazioni contro la Democrazia cristiana.

La seconda metà degli anni ’80: la costruzione dell’Europa, Kohl e la Germania…

Ricordo una riunione in Germania nel 1988 con Kohl che era rude nel parlare ma di grande chiarezza espositiva e spiegò che la Germania al centro dell’Europa è un rischio per l’Europa stessa e per evitare il rischio bisogna inglobare la Germania in Europa. Oggi siamo ancora qui, il problema è ancora questo perché noi ci siamo fermati e la guida politica è stata più attenta alla sopravvivenza anziché al futuro.

…e Gorbačëv:

Con Gorbačëv ho avuto conversazioni bellissime, appena ci siamo incontrati cominciammo a parlare della piaga della droga tra i giovani che per me era un segno, almeno in Occidente, di un malinteso senso della libertà. Faccio con lui discorsi in varie sedi e a un certo punto gli dico che noi italiani faremo una specie di piano Marshall per aiutare lo sviluppo della Russia; lui, rivolto a me, dice che «voi siete cresciuti economicamente ma non siete integrati, mentre noi sovietici siamo uniti ma non siamo sviluppati economicamente, ci dovreste dare una mano». Gli chiedo se per lui era ancora valida l’esperienza marxista e lui dice che bisogna vedere di quale esperienza si vuole parlare, interviene la moglie e difende rigorosamente la posizione marxista-leninista, lui mi guarda e dice «mia moglie è filosofa» e poi dice a lei: «Ma l’uomo, senza spiritualità che cos’è?». Mi sembra stupendo che il leader del partito comunista sovietico ponga la questione sulla spiritualità dell’uomo.

C’è tempo anche per una riflessione autocritica: 

Dentro la Dc da giovane ero alquanto settario, non avevo il senso dell’unità, volevo fare la corrente degli intelligenti, un errore mortale. Quando ho fatto il segretario invece ho sempre pensato all’unità.

Gli ricordo una sua passata intervista in cui diceva che uno dei meriti della Democrazia cristiana è stato fare dell’Italia, che era un paese reazionario, un paese democratico. Finita la Dc in questi trent’anni l’Italia è forse tornata a essere un paese reazionario?

Il paese si è trasformato: quelli che poi sono venuti dopo di noi, pensando a tutto quello che si è realizzato, debbono tutti concludere che il difetto enorme è stata la crescita accelerata, ciò che negli altri paesi era avvenuto in qualche secolo da noi è avvenuto nel periodo tra il 1947 e il 1989. Dopo il processo democratico e la funzione della Dc hanno perso vigore, non c’è stato più pensiero e ha prevalso la convenienza. Negli anni ’80 mi resi conto di questo rischio e provai a rinnovare le istituzioni, con Berlinguer ebbi un rapporto di grande solidarietà, lui era una persona di grande delicatezza, ricordo che una volta parlando con lui mi uscì un’espressione colorita e lui mi disse «Ringrazia Iddio che ti voglio bene perché questa espressione un sardo te la farebbe pagare». Purtroppo lui non ci sentì rispetto alle riforme istituzionali, non fu pronto in quel momento e poi quando si convinse avvenne la sua morte improvvisa.

Nella galleria dei ricordi c’è spazio anche per alcuni Papi che ha conosciuto (ben otto):

Giovanni XXIII è stato il Papa che forse mi ha colpito di più, direi quasi che la sua era una “sacralità manifesta”, che rivela l’insufficienza del pensiero rispetto a tanta grandezza. Penso alla bellezza di quella espressione sulla carezza da dare ai bambini tornando a casa e non posso ancora oggi non emozionarmi profondamente; quella fu una suggestione infinita per tutta la classe politica, indistintamente. Paolo VI lo avevo già conosciuto come assistente della Fuci, ricordo nel 1945 quando ci fu l’uccisione di Mussolini. Io mi trovato a Roma per una riunione politica e ci fu una grande discussione se era legittimo ammazzarlo e ricordo che lui insieme a Dalla Torre, il direttore de «l’Osservatore Romano», fecero degli interventi molto costruttivi. Con Giovanni Paolo II ebbi un lungo rapporto, finalizzato a riaprire il rapporto tra la Chiesa e la Dc che era molto in crisi, come ho già detto. Quando avemmo occasione di parlare mi fece capire che non aveva un pensiero preciso sulla situazione italiana e voleva comprendere meglio questo strano paese che è l’Italia; mi disse «Io sono il Primate d’Italia ma è un titolo onorifico, di fatto io non conosco bene la realtà italiana» e così cominciammo un bel rapporto, in cui mi aiutò anche l’amico Mario Agnes, il direttore de «L’Osservatore Romano».