Putin non respinge nessuno e, al tempo stesso, può cinicamente sostenere di avere subito avviato conversazioni con il governo ucraino per cercare una soluzione negoziale. In realtà le sue forze armate non hanno mai smesso di intensificare l’aggressione. In questa atmosfera avvelenata, l’opinione pubblica internazionale teme fortemente la deflagrazione di una guerra nucleare.

A tre settimane dall’inizio dell’invasione russa, la situazione militare, politica e diplomatica resta confusa e sembra difficile alimentare la speranza di arrivare ad una rapida soluzione della crisi internazionale in atto.

Il conflitto che si estende, di giorno in giorno, sull’intero territorio ucraino, con attacchi russi di inaudita ferocia sulla popolazione urbana, contagia sempre più le relazioni fra la Russia e l’Occidente (“in primis”, Stati Uniti e  Paesi membri della NATO e dell’Unione Europea). Al riguardo, da una parte si continua ad imporre sempre più gravi sanzioni economiche al Paese e “ad personam”, mentre dall’altra si risponde con la (nemmeno troppo) velata minaccia di estendere il conflitto oltre confine nonché di impiegare, se necessario, armamenti nucleari (sic!). Contemporaneamente, i russi colpiscono, a chiaro scopo intimidatorio, obiettivi militari situati a pochissimi chilometri dal territorio polacco, con conseguente rischio di sconfinamento, dove abitualmente risiede “personale militare straniero” con il compito di addestrare l’esercito ucraino.

Constatata l’imprevista caparbia resistenza dell’esercito e della popolazione, Putin punta decisamente sulla strategia della tensione, aumentando lo sforzo militare sul campo, incurante della strage di civili in atto e delle centinaia di migliaia di profughi allo sbando ai quali, con tanto dosata misura, viene consentita l’uscita dalle città martoriate da bombardamenti quasi ininterrotti e da condizioni di vita al limite della sopravvivenza.  

In tal senso, egli dà l’inquietante impressione di somigliare ad un pilota che, in fase di decollo, abbia raggiunto il “punto di non ritorno”, quando cioè l’unica manovra resta quella di accelerare “a tavoletta” per far alzare in aria il velivolo e non rischiare lo schianto al suolo.

L’Occidente, dichiaratosi ripetutamente contrario all’intervento armato, punta su tempi lunghi, quelli cioè necessari per consentire alle sanzioni di espletare per intero effetti negativi sull’economia russa. Nel frattempo, però, deve non soltanto monitorare la resistenza sul terreno dell’esercito ucraino (fattore fondamentale per valutare la possibilità o meno che Zerensky riesca ad avviare un negoziato in grado di concludersi con un onorevole compromesso), ma anche il comportamento di altri protagonisti interessati (a vario titolo) a ritagliarsi nella vicenda un ruolo, vero o presunto, di mediatore. Primo fra tutti la Cina.

Pechino mostra equidistanza, ma di fatto il suo linguaggio sembra sostenere le ragioni di Mosca, da cui è attratta per chiari motivi di equilibrio geo-politico. Al tempo stesso, però, non può mettere a rischio le relazioni commerciali con Stati Uniti ed Europa, che raggiungono in termini economici globali una cifra quasi dieci volte superiore a quelle con la Russia. Ecco perché Washington, da un lato, ne sollecita un intervento su Mosca “ad adiuvandum”, dall’altro, però, non manca di ricordare ai governanti cinesi che un loro (temuto) doppio gioco li trasformerebbe da possibili mediatori a sicuro bersaglio di ritorsione americana. È il messaggio che, in estrema sintesi, Sullivan ha recapitato a Yang nel recentissimo incontro di Roma.

Anche Erdogan coltiva l’ambizione di paciere, ma i suoi (da tempo) deteriorati rapporti con l’Occidente non appaiono la premessa migliore per svolgere quel compito in maniera neutrale e, quindi, proficua per ambedue le parti. Occorre, comunque, registrare che plenipotenziari turchi sono sempre in contatto con i due belligeranti, non cessando di reiterare la disponibilità a favorire il conseguimento di una intesa attorno, eventualmente, ad un tavolo trilaterale.

Rimane Israele (che non ha aderito alle sanzioni economiche imposte alla Russia), il cui Primo Ministro, Naftali Bennet, ha avviato una linea diretta con Putin, dichiarandosi anch’egli pronto ad interporre i propri buoni uffici per favorire un dialogo ad alto livello tra le due parti in conflitto, da tenersi, ove possibile, su territorio israeliano. Difficile, per il momento, pensare che l’iniziativa, seppur utile sul piano mediatico, possa avere successo per la mancanza di peso specifico politico del proponente, anche se è bene non sottovalutare il rapporto privilegiato che tradizionalmente Tel Aviv mantiene con Washington nonché le origini russe ed ucraine di una grossa fetta della popolazione israeliana. In fondo, le vie della diplomazia sono infinite… 

Ciò detto, Putin non respinge nessuno e, al tempo stesso, può cinicamente sostenere di avere subito avviato conversazioni con il governo ucraino per cercare una soluzione negoziale, mentre in realtà le sue forze armate non hanno mai smesso di intensificare l’aggressione. 

Nelle ultime ore, sono stati registrati messaggi contrastanti sull’andamento della situazione. Infatti, alle previsioni di Lavrov sulla possibilità di giungere ad un accordo con il governo di Kiev fa riscontro la moltiplicazione dei bombardamenti russi indiscriminati sulle aree urbane. La ventilata esistenza della bozza di un piano di pace in quindici punti non arriva a fugare i timori per la perdurante volontà di Putin di sottomettere del tutto l’Ucraina. Infine, le gravi minacce di Biden rivolte pubblicamente a Putin (e da questi prontamente restituite) hanno alzato di molto il livello di guardia della litigiosità fra le due capitali e non sembrano collimare con le voci (anche autorevoli), che si levano un po’ dappertutto per la cessazione delle ostilità, sull’onda probabilmente di una certa flessibilità negoziale apparsa per la prima volta nelle ultime dichiarazioni di Zerensky. 

In questa atmosfera, avvelenata da un conflitto le cui conseguenze nefaste si sono già, in vari modi e misure, abbattute un po’ dappertutto, l’opinione pubblica internazionale teme fortemente la deflagrazione di una guerra nucleare. Ebbene, si ha l’impressione che proprio questo possibile epilogo, devastante per tutti, abbia fino ad oggi impedito al confronto armato di arricchirsi di nuovi protagonisti nonché di espandersi al di là dei confini ucraini.  

 

Giorgio Radicati, Ambasciatore.