La politica economica di Trump punisce l’occidente e unisce l’oriente

Articolo già pubblicato sulla rivista “Servire l’Italia”

Sulla stampa italiana di stampo liberale fioriscono le lodi alla politica economica di Trump.
E si prendono in giro tutti gli economisti che avevano previsto disastrose conseguenze per
l’economia americana in seguito alla inaspettata vittoria di un repubblicano, che solo pochi anni prima si dichiarava simpatizzante e sostenitore del partito democratico. Nei primi due anni della presidenza Trump il pil e l’occupazione negli Stati Uniti hanno continuato a crescere più o meno allo stesso ritmo degli ultimi 4 anni di Obama. Ma nel frattempo è cambiata del tutto la strategia internazionale del Paese più forte del mondo che vuole diventare ancora più forte, miopemente, a spese dell’Europa e dell’Asia.

La miopia, se non la cecità, sta nel ritenere che gli Stati Uniti possano continuare a crescere in un mondo meno globalizzato e quindi meno aperto agli scambi con l’estero, dimenticando che lo zio Sam è diventato il leader politico ed economico mondiale proprio grazie al fenomeno della globalizzazione. Ora l’ossessione di Trump è di riportare in America le imprese Usa che producono all’estero e di punire con dazi più alti le importazioni, soprattutto di prodotti cinesi, inclusi i cellulari Apple fabbricati in Cina. Con questa politica egli si illude di ridurre sia il disavanzo pubblico (che ormai ha sfondato i $1.000 miliardi), sia il disavanzo commerciale (che sta per superare i $600 miliardi).

Tuttavia questa politica non sta affatto riducendo i due suddetti disavanzi. Il primo, quello
pubblico, continua ad aumentare per i generosi sgravi fiscali concessi ai contribuenti più ricchi; anche il secondo, quello commerciale, sta peggiorando per la naturale reazione della Cina.
Infatti il Celeste Impero sta reagendo con l’imposizione di più alti dazi alle importazioni di
prodotti americani e soprattutto con l’abbandono degli acquisti dal Texas di petrolio e gas
naturale, ora sempre più forniti alla Cina dalla Russia e dal Qatar. È evidente che il duro clima conflittuale imposto da Trump con misure da “guerra commerciale” non favorisce la soluzione a breve del problema e anzi minaccia di peggiorarlo.

Oggi a Vladivostok (Siberia) si conclude la tre giorni dell’“Eastern Economic Forum”, che
ha riunito, ospiti di Putin, tutti i capi di Stato dell’Asia, Giappone compreso, per rafforzare i
legami economici nell’area più popolata del mondo. L’obiettivo è di non restare colpiti dalla
politica isolazionista di Trump, in attesa che questa venga sconfitta dal ritorno del buon senso, che richiede anche una profonda riforma del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio).

Nel frattempo, però, è il mondo occidentale a soffrirne, in particolare l’Europa, danneggiata
non solo dal populismo e dalle divisioni interne, ma anche dalla politica di Trump promotrice, tra l’altro, delle sanzioni economiche contro la Russia, le cui conseguenze negative ricadono più sull’Europa che non sugli Stati Uniti.
È molto probabile che nei prossimi mesi siano in arrivo i primi dati negativi sull’evoluzione
dell’economia statunitense. Il “miracolo” compiuto da Trump verrà quindi ridimensionato nel giudizio, specialmente se nelle elezioni di medio termine a novembre il partito democratico riuscirà a togliere seggi ai repubblicani nel Congresso di Washington, rendendo più difficile la vita – già turbolenta – all’interno della Casa Bianca.