La politica, i giovani e il primato della “libertà”.

 

La pandemia ha svelato una specie di “nuovo blocco” in embrione, la cui forza motrice sembra essere un popolo, soprattutto (ma non solo) giovanile, che pare accomunato in primo luogo dal primato dell’aperitivo. Niente passato, zero futuro. E la politica? Dovrebbe riflettere su stessa, per riprendere a tessere una trama, con l’ambizione di decifrare il cambiamento e poi riuscire magari ad orientarne il corso.                                                                                                             

 

Gabriele Papini

 

Maggio è il mese delle “grandi riaperture”, ma le divisioni pesano ancora, eccome, e non si lasciano derubricare al rango di politique politicienne. Anzitutto c’è da rilevare che destra e sinistra esistono ancora. Solo che i loro ruoli sembrano essersi quasi capovolti. La sinistra che voleva, se non proprio dare l’assalto al cielo, quanto meno cambiare il mondo, e che aveva l’assembramento (l’assemblea, la piazza, il corteo) nel suo codice genetico, adesso viene percepita come nostalgica del “tutti a casa”, dell’obbligo delle mascherine, oltre che, ovviamente, come paladina delle tasse: quasi la reincarnazione dello sceriffo di Nottingham. La destra conservatrice, che la piazza la detestava, adesso invece la solletica e la cavalca, in nome della caduta di norme e ordinanze che hanno regolato gli ultimi due anni della nostra vita.

 

In ballo non ci sono solo le riaperture, la patrimoniale, le tasse di successione, che pure sono, si capisce, aspetti importanti; c’è  anche, in forma decisamente inedita, quella che un tempo veniva considerata la questione delle questioni, e magari un po’ enfaticamente, veniva chiamata la “libertà”.

 

La sinistra, in materia, pare afflitta da afasia. La destra, al contrario, ne fa una bandiera. Non è la prima volta, nel lontano 1994 Berlusconi scese in campo e vinse le elezioni in nome della «libertà» insidiata dal «comunismo» (peraltro appena crollato). Ma dal 1994 il mondo è profondamente cambiato, neanche la «libertà» della destra è quella di una volta. Per dire. Qualche tempo fa è comparsa su un muro di Roma una frase che la dice lunga: «Alla mia salute ci penso da solo. Lo Stato stia lontano dalla mia libertà e dalla mia famiglia. Abbasso (in realtà l’espressione è più colorita) il comunismo».

 

Parole, appunto, in «libertà»? Certo. Ma forse c’è qualcosa di più profondo. Così profondo, così inquietante, che replicare indignati in nome dei valori e dei principi (il rispetto delle regole, la solidarietà tra le generazioni, la libertà e i diritti che hanno per limite la libertà e i diritti degli altri) è doveroso, ma non basta. Anche perché (lo sa benissimo chiunque ci abbia provato) nessuno di questi argomenti, da solo, ha molte possibilità di far breccia. Per trovarne di più convincenti, bisognerebbe provarsi a indagare (umilmente, ma impietosamente) su come, quando e perché una simile idea della «libertà» si sia diffusa fin quasi a divenire egemone.

 

E visto che, parlando di egemonia, molti sono portati a citare Gramsci (spesso a sproposito) bisognerebbe chiedersi come, quando e perché abbia cominciato a prendere corpo quella specie di “nuovo blocco” in embrione svelato dalla pandemia, la cui forza motrice sembra essere un popolo, soprattutto (ma non solo) giovanile, che pare a prima vista accomunato in primo luogo dal primato dell’aperitivo e della “birretta a Campo” (‘de Fiori, s’intende). Niente passato, zero futuro. Con tutto quello che ne consegue anche sul piano “ideologico”, nel senso di coltivare un’idea minima di Paese, e prima ancora della concezione di sé stessi e della vita sociale.

 

Ci sarebbe di che discutere, ma purtroppo è difficile, per non dire impossibile, che una simile riflessione prenda corpo, almeno sul piano sociale. Un po’ perché una politica disattenta purtroppo non dispone da un pezzo (e non se ne fa un cruccio) degli strumenti, intellettuali e non solo, utili a “poggiare l’orecchio alla terra” (come avrebbe fatto il rabdomante nel Contadino della Garonna di Jacques Maritain) cioè a cogliere quei cambiamenti della società che un tempo cercava di promuovere, di indirizzare e, nel caso, di contrastare sul campo, e che adesso invece si limita a subire almeno finché non le si ritorcono apertamente contro.

 

Molto perché, per avviarla, la politica dovrebbe (anche se la storia contemporanea non va più di moda) riflettere a fondo e dolorosamente su se stessa, sulla desertificazione che ha vissuto e sul deserto che ha prodotto. Alzi la mano chi intravede qualcuno che abbia la testa, il cuore e, perché no, lo stomaco necessari alla bisogna.