La politica mediterranea dell’Italia: dall’equanimità “centrista” alla subordinazione verso Israele

Dal dopoguerra a oggi, visto l’annoso conflitto israelo-palestinese, difficile ritrovare il Governo e la Farnesina così schiacciati sulle ragioni di Tel Aviv

Dal dopoguerra a oggi, visto lannoso conflitto israelo-palestinese, difficile ritrovare il Governo e la Farnesina così schiacciati sulle ragioni di Tel Aviv

 

In riferimento alla delicatissima condizione geopolitica mediorientale, dal punto di vista storiografico si fa fatica a ritrovare un esecutivo italiano così incline (per non dire prono) nel sostenere la posizione di Israele circa il deterioramento dei suoi rapporti con i paesi arabi, palestinesi in testa.

Di fronte a una crisi internazionale contrassegnata dal fiume di sangue che sta scorrendo in Terrasanta a seguito dell’ennesimo conflitto tra lo stato ebraico (ma si può ancora parlare di conflitto?) e le popolazioni islamiche, fa un certo effetto vedere centrodestra, centrosinistra e pentastellati prendere le distanze in modo netto da quella politica di continuità e di equidistanza che ispirò Palazzo Chigi durante il dopoguerra, gli anni del “boom” e l’alba del Duemila. Nell’inquadrare l’evoluzione, all’interno della maggioranza, della linea diplomatica italiana nei rapporti mediterranei, rispetto a cui risalta ancora la strategia caratterizzata dalla ricchezza delle posizioni, dalle diverse sensibilità e dai dibattiti (epocali) che ne seguirono, si può notare come suddetti valori stiano scemando sempre più per lasciar spazio a iniziative di bassissimo profilo, tra cui il tifo da stadio bipartisan pro-israeliano inscenato davanti Montecitorio (con Salvini e Letta capifila). Dal dopoguerra in avanti, infatti, era emerso il pensiero di personaggi come De Gasperi, Gronchi, Fanfani, Moro, Berlinguer e lo stesso Craxi, che evidenziò l’assoluta equanimità, per non dire uno sbilanciamento verso le ragioni dei più deboli, delle posizioni politiche assunte, del tutto ideali e inclini ad aprire null’altro che dialoghi costruttivi, i quali – volenti o nolenti – trasformarono l’Italia in un punto di riferimento indiscusso e costante per le diplomazie di tutta l’area mediorientale. Vero è senz’altro che il peso esercitato da uomini esterni alle maggioranze di allora (mi vengono in mente Giorgio La Pira ed Enrico Mattei) ebbe una forte influenza poiché debitamente motivo di “intercessione” tra le stesse e le rappresentanze estere interessate; ma non tutto ciò che è stato fatto di buono può essere cancellato con un colpo di spugna.

La negazione del regime di sanguinose restrizioni a cui sono sottoposte le popolazioni autoctone dell’area (alcune comunità da anni ricevono solo poche ore di elettricità giornaliere e hanno scarsissima acqua potabile) è un atto di deresponsabilizzazione politica in virtù di una condizione che ha assunto dimensioni globali e di fronte a cui l’Europa non deve defilarsi come ha fatto sinora. La cosiddetta autodifesa israeliana, che a tratti sembra essere di fatto più una pulizia etnica, fa emergere particolari inquietanti: le immagini dei coloni che “marchiano” le abitazioni degli arabi con effigi di riconoscimento (a proposito, a qualcuno ricorda qualcosa?) e che rastrellano i quartieri palestinesi non possono più essere eluse mediante politiche di asservimento o di convenienza. Si prenda da esempio Papa Francesco – uno dei primi a riconoscere la Palestina come stato sovrano – inorridito dalle perdite di vite umane (più di 200, di cui il 50% tra donne e bambini) che sta provocando la crisi, ma soprattutto lucidamente conscio della sproporzione militare evidenziata dallo scontro.

Da una ventina d’anni a questa parte, con l’affermazione del berlusconismo prima, della svolta neo-liberale della sinistra poi e della breve parentesi renziana dopo, ha preso il sopravvento il sostegno incondizionato allo stato ebraico senza per questo far acquisire all’Italia un ruolo di rilievo nell’ambito delle relazioni con i paesi dell’intera regione; un ruolo che in passato invece si contraddistingueva, forte delle sue ben delineate posizioni anti-colonialiste e sensibili alla salvaguardia dei luoghi santi, dei quali Gerusalemme è il simbolo. La stessa Dc, che ravvisò nella questione palestinese un problema da risolvere con una pace  “senza se e senza ma”, riflesse il convincimento delle diverse maggioranze di governo, secondo cui l’atteggiamento dei coloni sionisti ledeva di fatto il diritto all’autodeterminazione dei popoli e di conseguenza la sicurezza delle minoranze cristiane dell’area. Di certo, la decisione unilaterale presa da Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, anziché stemperare la tensione, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco. Una decisione che stanno pagando non solo le comunità arabe, ma anche lo stesso neo-presidente Biden, chiaramente in difficoltà di fronte alla inaudita violenza esercitata dai vecchi alleati di Tel Aviv nel reprimere l’instabilità della zona. Ne va della stessa credibilità statunitense.