La ricomposizione del centro parlamentare non deve essere un’operazione di vertice. C’è bisogno di rinnovamento.

Dalla fine della Dc, del Partito Popolare e poi della Margherita sono state tentate operazioni di ricostruzione del centro. Ora si annuncia una stagione nuova, sul cui sfondo conta il binomio Mattarella-Draghi. Tuttavia un’operazione meramente di vertice, senza un vigoroso ricambio di classe dirigente, sarebbe una mera somma di addendi.

 

Francesco Provinciali

 

Il Parlamento non è uscito indenne dalle elezioni Presidenziali, la richiesta di proroga indirizzata a Mattarella più che un segnale di unità, almeno da parte dei partiti della maggioranza di governo, è stata la conseguenza di un senso di impotenza, una palese difficoltà a convergere su un nome nuovo, a cui si era aggiunto il timore di imprimere un’accelerazione verso lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate.

 

Ci sono poi altri elementi confusivi che danno del Parlamento, nella sua attuale composizione, l’immagine di uno sparigliamento evidente, tra distinguo e tentativi di ricomposizione: che il centro destra sia arrivato al capolinea lo dicono gli stessi leader di quella che fino a un mese fa veniva definita alleanza o coalizione, mentre si cercano temi convincenti che qualifichino i nomi nuovi che sono emersi, a cominciare dal partito repubblicano a quello conservatore, mentre i liberal-popolari fedeli a Berlusconi scrutano nuove leadership, sempre sotto l’egida del Cavaliere cui ha fatto visita Casini. A sinistra scarseggiano le idee sul da farsi, dopo la “liaison dangereuse” con il M5S, persino Bettini, Guerini e Franceschini si riposizionano: basti pensare che il Pd, che ha sempre espresso un marcato orientamento per il bipolarismo (Prodi docet), sta pensando ad una riforma elettorale che riporti in vigore il proporzionale puro, anche se con una soglia di accesso (e Letta è il padre putativo di questo ripensamento).

 

Nel M5S è in atto la diaspora neanche tanto velata tra Conte e Di Maio, e molti indizi fanno pensare che il secondo, fiutando aria di ridimensionamento e forse di implosione di un Movimento orfano di una linea politica condivisa al suo interno, cominci a pensare ad emigrare verso il Pd, dove eviterebbe la tagliola del vincolo del secondo mandato e si ritaglierebbe un futuro politico garantito e progressista.

 

Deve far presto visto che proprio su sua iniziativa il Parlamento sarà decapitato: perché se resta e perde il confronto con la sua creatura politica deve attendersi anche il ritorno in campo di Di Battista, forte personalità non incline ai compromessi.

 

Anche il centro si muove, persino con argomentazioni più convincenti: in fondo Mattarella rappresenta l’area moderata, è un democristiano della prima ora, il riferimento alto di una tradizione politica che ha saputo resistere al velleitarismo populista e al giustizialismo giacobino. Il centro moderato, nel suo rassemblement tattico è stato determinante per mitigare le alternative di destra e sinistra, entrambe senza numeri per imporre un candidato di area. Ci si aspetta un salto dalla tattica alla strategia, con un comune denominatore di imprinting ideologico: moderazione, governabilità, stabilità, tradizione e innovazione.

 

Ci si attenderebbe anche un rinnovamento dei timonieri, ma forse i tempi non sono maturi: c’è molto fermento in periferia mentre si origlia soprattutto ciò che accade nel centro parlamentare. È di questi giorni la notizia di fermenti e di incontri, di progetti in fieri e di una volontà di ricomposizione di cui non si aveva sentore da anni: un sistema elettorale proporzionale favorirebbe un ricompattamento al centro che tornerebbe ad essere incisivo e determinante. Dall’incontro tra Renzi, Toti e Mastella nasce ‘Italia di centro’, mentre Cesa, Lupi, Brugnaro e Rotondi restano per ora legati al centro destra.

 

C’è “fame di centro”, osserva Osvaldo Napoli, uno dei registi dell’operazione guidata da Renzi. Dalla fine della Dc, del Partito Popolare e poi della Margherita sono state tentate operazioni di ricostruzione, seguite dal perdurare degli sparigliamenti e dal crescere lento ma inesorabile del Gruppo misto, un contenitore per tutte le stagioni. I nomi ‘di peso’ adesso in campo preludono ad una stagione nuova e il centro moderato – nella sua accezione più ampia – prende ora consapevolezza di una fattibilità concreta, sul cui sfondo conta, eccome, il binomio Mattarella-Draghi.

 

In vista delle elezioni del 2023 il palinsesto aggregativo dovrebbe prendere consistenza: resta tuttavia un nodo cruciale per la sua credibilità e il suo auspicabile successo. Esso è continuamente sollecitato dagli amici che su “Il Domani d’Italia”, “Rinascita Popolare”, “Insieme”, “Democraticicristiani-Per l’Azione” e altri magazine pongono con sagacia e autorevolezza culturale l’ambito tematico dei contenuti, dell’ispirazione ideale, dei riferimenti autorevoli della tradizione e della militanza del cattolicesimo popolare e liberale, oltre al postulato rinnovamento della classe politica, tenendo conto della forte spinta che proviene dall’associazionismo e dalla base sociale. Un’operazione meramente di vertice, un’alchimia delle componenti pilotata dal centro e priva di un vigoroso ricambio di classe dirigente sarebbe una mera somma di addendi, senza garanzia del risultato. La pertinenza delle argomentazioni sollevate da chi scrive analisi politiche sensate e aderenti ai bisogni del paese reale non può ridursi a “flatus vocis”, meritando il diritto ad un ricambio che sostanzi la necessità di rinnovamento.