La secolarizzazione ha ucciso, insieme, il clericalismo e il laicismo programmatico. Ora può partire un dibattito nuovo.

Sul n. 5/6 del 2002 di “Enne Effe”, la rivista che per alcuni anni ha continuato a sviluppare i temi del cattolicesimo democratico nel solco della precedente “Nuova Fase” dì Giovanni Galloni, Ruggero Orfei interveniva con questo interessante saggio sulla secolarizzazione. Lo spunto era dato dai discorsi e dai commenti che avevano accompagnato lo storico intervento di Papa Giovanni Paolo II al Parlamento italiano. Di seguito ripubblichiamo integralmente (con diverso titolo) lo scritto come omaggio all’amico, dì cui abbiamo sempre apprezzato la vivacità e ricchezza di elaborazione intellettuale, nel trigesimo della sua comparsa. Oggi alle 18.30, a Roma, nella chiesa dì Nostra Signora de La Salette, via Fabiola 10, sarà celebrata una messa in suffragio. 

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La questione più importante l’ha posta il professore Emanuele Severino, quando, a commento del discorso del Papa al Parlamento italiano, ha evocato l’esistenza di sotterranei nei quali vivrebbe la cultura laica e democratica. Da questa deriva l’attuale assetto istituzionale che sostiene l’insieme dei valori che fanno da riferimento alla civiltà liberale. Sotterranei, perché non sono più visibili come corpo concettuale definito e perché non c’è più – aggiungiamo – una forza traente che si faccia carico del loro sostegno e della loro diffusione. Il fatto esiste. Più difficile è spiegarlo, perché le apparenze sembrano ancora conservare un’idea di laicità che, per essere troppo scontata e ovvia, finisce per essere anche irrilevante.

La questione di fondo va presa in considerazione perché uno degli aspetti più importanti dell’occasione, giustamente indicata come storica, del passo di Giovanni Paolo II a Montecitorio, è stato quello di chiudere davvero una fase segnata da tanti contrasti, violenze, attacchi reciproci e polemiche che non trovano più valida l’antica ragione d’essere.

La chiusura non è atto unilaterale, ma è voluta anche dalle forze politiche e da una coscienza civile che neppure ricorda o comprende più le cause di tanti contrasti. Il Papa, però, ha anche detto che occorre guardare al futuro e ai nuovi problemi che lo stesso sviluppo ha posto e continua a porre in una carenza culturale che non è stata denunciata come tale, ma che sta al di sotto di ogni parola. Sappiamo che il passato non va dimenticato. Senza farlo diventare mai un giudizio penale, deve essere ricordato, ma anche studiato e meditato, perché se ne possano ricavare informazioni utili sulle esperienze da apprezzare e su quelle da non ripetere. Senza questa riflessione, ovviamente, non c’è nessun magistero della storia. Ma è sul terreno della politica, quello su cui si distendono i programmi, che si deve camminare, provvedendo a elaborare e avanzare proposte tra loro anche molto differenti, ma che si riferiscono tutte a un bene da costruire e non più a un passato da giudicare. Da giudicare con difficoltà proprio perché i suoi effetti non ci sono più. Se ci sono, come dice Severino, stanno nei sotterranei della cultura.

Ma questo tema merita attenzione perché ci porta subito in una sfera di riflessione inedita, che è un prendere o un lasciare rispetto a quel che si deve ancora fare proprio per il futuro. Sia prima che durante e dopo, non sono mancate voci critiche, sia pure tutte assai rispettose della figura di un Papa, certamente di grandissimo rilievo religioso e pubblico e anche per le parole da lui dette nell’importante discorso che non avevano nulla di celebrativo, di occasionale e neppure di festoso. Era un discorso terribilmente serio. Gli argomenti toccati si riferivano tutti a impegni che le classi dirigenti dovranno assumersi partendo da basi culturali, se non nuove, profondamente rinnovate.

Ecco, dunque, il tema, la questione, il problema che ci sembra siano stati posti nell’occasione. Si tratta di una svolta storica, non soltanto italiana, in cui i processi di secolarizzazione hanno toccato limiti imprevedibili e non si sono riferiti soltanto alle idee di appartenenza cristiana. Diciamo di appartenenza cristiana, perché siamo pure sempre di fronte a una cultura diffusa, che è radicata nell’opinione popolare e continua inerzialmente a dominare ancora grandemente i comportamenti anche in una fase di declino della fede come tale. Bene, quella secolarizzazione è andata molto oltre e non ha avuto effetti solo sulla cultura cristiana e sui modi di essere cristiani, ma anche sulla cultura laica e sul modo di essere laici. Laici, s’intende, nel significato che al termine viene dato dalla politica. Non quindi il fedele cristiano che è un laico certamente nella Chiesa. Parliamo dei laici che vivono fuori della Chiesa e spesso con il termine laicismo intendono agnosticismo, talora ateismo, e qualche volta anche semplicemente anticlericalismo.

Questo laicismo che distinguiamo da tempo, noi cattolici, dalla laicità propria dei fedeli della Chiesa cattolica, ci pare sia stato investito anch’esso da un processo di secolarizzazione che ha sconvolto molti principi che parevano consolidati. Forse quella sul laicismo è soltanto una ricaduta, o un effetto di riflessione di quel che è accaduto nella Chiesa e sulla Chiesa. Il fatto è che il laicismo non è più in grado di elaborare non tanto una contrapposizione che la civiltà liberale non consente più, ma neppure una prospettiva culturale a tutto campo, come ideologia di successione delle culture politiche derivate in misure diverse, dal cristianesimo e anche da quelle che erano già derivate con una piega integralista come il marx-leninismo.

Ciò vale anche se sussistono isole di resistenza laicista come quella espressa da Giorgio La Malfa (ci manca la citazione testuale perché era trasmessa in Tv) che ha fatto riferimento a una sacralità delle istituzioni liberali e democratiche. Sembra, in effetti, che in Giovanni Paolo II vi sia la consapevolezza che la spinta laicista nel tempo moderno, non sia un dato recente. Nelle meditazioni che l’allora arcivescovo di Cracovia Wojtyla svolse per gli esercizi spirituali di Paolo VI nel 1976, vi erano indicazioni abbastanza precise. Il futuro Papa ricordava allora che il mondo scristianizzato e senza Dio saliva da lontano e già nella terza repubblica francese se ne potevano cogliere segni cospicui. L’impatto con la modernità veniva visto anche come occasione per allontanare le masse dalla fede. Citava altri autori e traeva la conclusione che la persecuzione era solo uno degli elementi, molto sgradevole, certo, di un’attitudine anticristiana (Segno di contraddizione, Vita e pensiero, Milano 1977, pp. 146-148).

In verità occorrerebbe fare chiarezza anche sul significato della secolarizzazione, perché essa è in sé un positivo esito storico che ha chiarito i termini del rapporto tra fede e politica. Soprattutto è l’affermazione dell’autonomia che si deve alle cose terrestri. La secolarizzazione che, invece, fa riferimento al laicismo può essere valutata in modo sbagliato quando si misura in funzione dello spazio che si toglie alla Chiesa e ai credenti nell’affermazione della propria missione e del proprio essere. Quell’autonomia, in realtà, è stata sancita dal concilio e non si può riportare indietro il calendario.

Allora: in quale senso si può dire che la secolarizzazione ha investito anche il laicismo? È accaduto che lo stesso successo ottenuto dalle azioni per affermare la libertà politica e di coscienza, abbiano costituito un adempimento che non era e non è estraneo alla visione cristiana della vita e alla teologia. Se questo è avvenuto talora anche contro la Chiesa, il risultato rimane ugualmente positivo ed encomiabile. Certamente, con tali esiti è anche accaduto che, alla fine, venendo meno le ragioni di uno scontro, lo stesso laicismo si è trovato un po’ disarmato.

In realtà, una visione morale alternativa non ha trovato sostegni adeguati nella ragion pratica scaturita dalla filosofia moderna. Questa si è cullata nell’analisi del metodo, ha certamente affinato molti strumenti della teoria della conoscenza i cui successi si sono riversati, ad esempio, fecondamente, sul campo scientifico. Ma sul terreno dei valori il discorso non solo è venuto scemando, ma ha finito per rivelare che non è possibile salvaguardare una morale cercando di cancellarne la fonte. Una religione che sia “laica” senza Dio, non trova nessuna giustificazione. In questo senso l’idea di una moralità che fosse rimasta cristiana nei suoi contenuti, anche senza la fede altrettanto cristiana, non ha trovato senso. In questo quadro la secolarizzazione ha travolto anche il laicismo, quando questo ha raggiunto forse il massimo di espansione.

Quando sono venute alla ribalta storica con forza e anche con metodi di particolare efficacia, tendenze organizzate per negare la persona e la libertà, la condizione di una democrazia senza contenuto e come puro metodo di convivenza, non ha resistito agli assalti contrari all’umanesimo. Il testo di riferimento è rimasto quanto il Papa ha scritto nell’enciclica Veritatis splendor (1993). In essa Giovanni Paolo II diceva: “Dopo la caduta, in molti paesi, delle ideologie che legavano la politica a una concezione totalitaria del mondo – e prima fra esse il marxismo – si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità” (Veritatis splendor, n.1019).

Ricordiamo che il professore Remo Bodei, su “MicroMega”, aveva affrontato il tema. Difendendo il relativismo etico, non è riuscito a dare un fondamento a una democrazia con un senso e un contenuto. Per questo la tematica del relativismo etico e della democrazia, che senza valori non può reggere, non è più un portato della parte cattolica, ma di tutti, anche laici che si sono estenuati in passato nell’affermazione di un metodo che pretendeva di essere un contenuto. Senza entrare nella “teoria” della questione, possiamo solo dire che la discendenza da dottrine della filosofia del diritto come quelle provenienti da Kelsen, sono diventate non solo poco persuasive, ma addirittura contrarie alla costruzione di una città terrena vivibile. Secondo Kelsen la legge, grazie alla sua formalità di norma accettata in qualche modo, può avere qualsiasi contenuto.

Il punto, dopo l’accettazione di questo principio, è stato non la fondazione della democrazia, che viene dopo, ma quella propria del comando mediante la legge. Questa risponde a una questione di potere e, secondo un’altra “parolaccia”, a un’egemonia che può rispondere a principi morali antiumanistici e quindi inaccettabili. In realtà, rimane consigliabile fare ricorso alla teoria di Antonio Gramsci sull’egemonia. Secondo il pensatore sardo non si sfugge mai a una questione di contenuto. Questo si può accettare o rifiutare, ma non si può fingere che non esista. E in ogni assetto, secondo lui, giustamente, vive ed opera un contenuto, cioè una concezione del mondo e noi diciamo una metafisica, alla quale corrisponde – inevitabilmente – una morale. Cioè l’etica conforme, vale a dire la morale non solo predicata o recitata a parole, ma quella realmente vissuta dalle persone.

Il limite di una democrazia che si presume senza metafisica è quasi un falso, perché sempre e comunque opera una visione generale delle cose da cui discendono anche le istituzioni e tutte le forme giuridiche. E, allora, occorre scegliere ancora tra un bene e un male verificati dai risultati, cioè dalla storia, e cogliere la fecondità di certi principi che sono in concorrenza con altri. Le difficoltà vengono da qui. I commenti al discorso del Papa e allo stesso avvenimento della sua presenza in parlamento derivano dalla percezione di un problema irrisolto, molto grave. Il discorso del senatore Marcello Pera, presidente della Camera alta, rivolto al Papa e a tutti i cittadini, è di grande rilievo, perché, ascoltandolo, non sembrava davvero l’espressione di un pensiero laico del tipo di quelli ai quali ci siamo abituati in anni passati e che, in effetti, non sarebbero stati più capiti da alcuno. In certi casi pareva un ricalco di un discorso cat- tolico già udito e in certi casi espressi in identiche citazioni di testi che si sarebbero ritrovate anche nel discorso papale.

Pera non aveva torto nell’operare una scelta che deve averlo impegnato non poco. Segnalava con efficacia, per la parte che rappresenta, il disagio o la difficoltà vera e propria di continuare a ripetere un’identità culturale che non ha più sostegni storici e che soltanto Giorgio La Malfa può ripetere, stando probabilmente un po’ fuori del flusso nuovo dei modi di vivere e di pensare. Pera ha segnalato un dato assai importante perché, chiaramente, non si riferiva più a tematiche del tipo “Tevere più largo”, “conciliazione tra i due poteri”, “caduta degli storici steccati” per accordi intervenuti. No, la questione si è mostrata seria perché in quel discorso c’era la denuncia e l’annuncio che una lunghissima fase si era esaurita.

Come riscontro – segno dei tempi – stava il precedente discorso di Ferdinando Casini, presidente della Camera dei Deputati che ha svolto un discorso tutto cattolico, ma ineccepibile da parte di un giudizio non solo laico, ma anche laicista. Se occorre guardare al futuro e non più al passato, dipende ora dal fatto che molte cose sono passate in giudicato, non in un archivio diplomatico e neppure nei libri di scuola, ma nel modo di pensare comune e nell’etica conforme, che ne può derivare. Nel dibattito pare di capire che il principio liberale di veder fiorire e predicare tutte le idee, opinioni, confessioni, e la libertà di farlo, non si può confondere con quello di una scelta che va compiuta non solo con il voto, ma anche con una responsabile posizione del mondo della cultura che oltre aver garantito una libertà di fondo, quella di tutti i diritti, poi, deve dar vita a programmi che impegnano tutti secondo direttive morali che sono sempre una scelta, un’affermazione e anche una negazione.

In realtà omnis determinatio est negatio. Non si sfugge. La democrazia diventa poi questo: la scelta di cose da fare insieme, in società, attraverso le istituzioni per un bene comune che, ovviamente, è sempre storico e mai definitivo, mai perfetto e non è frutto di un giudizio infallibile. Così si può presumere che una spaccatura che è sembrata assai importante nel passato, con una specializzazione di discorso culturale che portava varie culture a confronto anche polemico e dialettico, aveva perso senso se continuava ad essere riferito a un tempo in cui certe divisioni erano diventate anche schieramento politico-istituzionale. La situazione è cambiata non perché le ragioni di fondo siano scomparse, deperite o defunte, ma perché la loro incarnazione storica con la ricerca di nuovi corpi, nuovi linguaggi, nuove tecniche e, soprattutto, nuovi fini costruttivi per fare fronte a un mondo che oggi si trova a dover gestire – senza riuscirvi – i frutti stessi dello sviluppo che malamente e rozzamente chiamiamo mondo della globalizzazione, vuole una vera rinascita che è più persino di un auspicabile rinnovamento.

Per tale ragione ci pare che gli schieramenti siano stati travolti e molti nomi sono caduti nel nulla. Ma le ragioni di fondo restano. Lo stesso discorso del Papa è un rinvio a ricerche di modelli d’azione temporale, dove i cristiani e gli altri possano confrontare i propri valori, le proprie ascendenze e discendenze culturali. Sarebbe sbagliato immaginare che certi inviti ad agire per cambiare il mondo, per intervenire sui punti di sofferenza che pure sono stati quasi elencati, si voglia ritornare a vecchi modelli, a vecchie etichette con antichi schieramenti giustamente defunti e ormai irripetibili. Siamo, adesso, in una fase di trasformazione i cui esiti ci restano oscuri, ma che, alla fine, come tante domande, finiranno per trovare risposte e nuovi schieramenti che cercheranno di dare valori anche diversi alla democrazia e vorranno (per intrinseca necessità razionale) superare il punto morto dell’indifferentismo religioso.

Ha sbagliato, dunque, chi ha creduto che la crisi di certi schieramenti anche culturali fosse la fine di ogni possibile schieramento; ha sbagliato chi ha creduto di poter rinnovare la politica combattendo un tipo di pragmatismo con un altro tipo di pragmatismo. Più in particolare e fuori codice: la questione del rapporto tra Stato e Chiesa si pone sempre come un orizzonte vitale al cui cospetto si misurano le energie storiche che potranno scaturire da una ripresa di moralità e di elaborazione d’indicazioni che trascendano la “vile esperienza” quotidiana degli interessi costituiti. I problemi si riproporranno, anche se in forma nuova, ripetendo antiche polemiche. Non c’è dubbio che la Chiesa non rinuncia a investire l’intera attività umana e non c’è dubbio che questo procurerà opposizioni e contrasti. Ma l’insegnamento del passato rimane.

Certamente la Chiesa non ha mai sconfessato la dottrina della Plenitudo potestatis di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, ma al tempo nostro ha dato un volto nuovo a un impegno storico che non esige più crociate, garanzie di potere temporale, ma soltanto esercizio di carità. E lo chiede anche alle istituzioni laiche, riguardo, ad esempio, ad alcuni problemi particolari di larghe sezioni di popolo che talora sono come abbandonate. In questo senso va assunto come fonte anche il discorso fatto da Eugenio Scalfari a commento della visita del Papa alle Camere. Secondo Scalfari l’epoca della contrapposizione è finita. Cristianesimo e cultura laica finiscono per essere le due facce di una stessa medaglia. L’alternativa laica al cristianesimo non si pone più e Scalfari, benignamente, non ricorda che esisteva un programma laicista con contenuti forti e sempre polemici. Il cristianesimo diventa una specie di grande riserva di valori e di sollecitazioni spirituali per un impegno nel mondo che affronta le questioni più difficili. Gli apporti della cultura liberale restano lì, fermi, ma ormai disinnescati da ogni polveriera di scontri terribili.

Non si tratta solo del detto di Croce secondo cui non possiamo non dirci cristiani. Anche se inespresso, è il pensiero che non possiamo non dirci laici e liberali. Da qui discendono le conseguenze. La secolarizzazione ha ucciso insieme il clericalismo e il laicismo programmatico. L’idea che Scalfari enuncia nel titolo e che in fondo non c’è nel suo saggio (Il Grande Protettore della nostra Repubblica) e non è redazionale per evidenti ragioni gra- fiche, esprime una convinzione che necessita – e c’è – non tanto un protettore, ma un garante etico. Questo, dato il contesto, significa che l’insieme della cultura cristiana e della morale cattolica garantisce principi e valori anche degli assetti temporali laici.

La vicenda che appare legata principalmente a un dato di cronaca, in realtà attrae molti problemi ancora irrisolti. Ma soprattutto e beneficamente mette in luce una questione che come Scalfari dice, si fonda sul dato nuovo che una certa contesa storica non affascina più nessuno e che i confini antichi di schieramenti collocati su fronti morali contrapposti non è più attuale. Non è più attuale anche se ne sorgeranno di nuovi e di più interessanti. Il fatto notevole è che la “metafisica” laicista ha perso peso. Non ha più di fronte l’elemento dialettico fondato dalla storia di un integralismo clericale e temporalista, mentre c’è oggi, a partire dall’insegnamento pontificio, un interesse per l’uomo che diventa il criterio di giudizio. Anche perché per la Chiesa l’uomo persona non è un atomo, ma un centro di relazioni complesse che costituiscono la società organizzata nelle istituzioni, statali e non statali. Potrebbe da qui partire un dibattito nuovo che potrà avere forti riflessi sull’azione politica che, da questo punto di vista, va attentamente seguita.