Articolo pubblicato nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

La questione ecologica in Africa è impellente e sarebbe a dir poco fuorviante dissociarla dai temi della miseria sociale, della fame, della crisi economica e dell’instabilità politica. Al contrario, la sfida ambientale è vitale per la qualità della vita nel continente, soprattutto per contrastare l’impatto negativo di fenomeni come l’inquinamento e i cambiamenti climatici. Non a caso il compianto teologo camerunese Jean Marc Ela, nel suo saggio Repenser la théologie africaine. Le Dieu qui libère, Karthala, affermava senza esitazione che «ciò che più è da temere nelle Chiese dell’Africa è che la salvezza di Dio sia annunciata per l’essere umano, come se il suo destino non fosse legato a quello della terra dove si radica la sua vita».

Recenti studi incentrati sulla genetica delle popolazioni umane, ritengono che l’Africa abbia già attraversato una grave crisi circa 70 mila anni fa quando l’Homo sapiens sapiens rischiò l’estinzione nel settore orientale del continente (il cosiddetto Corno d’Africa), a causa dell’estrema siccità che avrebbe ridotto a poco più di duemila unità i nostri antenati afro. Sta di fatto che il recente rapporto Cambiamento climatico e territorio, diffuso lo scorso 8 agosto a Ginevra dall’Ipcc, il Comitato scientifico dell’Onu sul clima, ha evidenziato come il riscaldamento globale — che causa siccità, inondazioni e incendi sempre più frequenti anche nelle zone mediterranee — sarà nei prossimi anni un fattore sempre più destabilizzante per l’Africa. Col risultato che il Global warming amplificherà drammaticamente eventi già oggi molto ricorrenti, quali piogge violente, siccità e desertificazione, sottraendo il terreno ai contadini, soprattutto nelle regioni più povere del continente. Di conseguenza aumenterà la mobilità umana all’interno dei Paesi interessati e oltre le loro frontiere. Ecco che allora i cosiddetti migranti economici — al centro del dibattito politico in Europa — saranno sempre più “migranti climatici”, accentuando la conflittualità sociale per l’uso delle terre ma anche nei Paesi di destinazione.

Assieme alla siccità — stando sempre al rapporto Ipcc — aumenteranno gli incendi. La scorsa estate più di diecimila incendi hanno ridotto in cenere vasti settori dell’immensa foresta pluviale che attraversa l’Angola, lo Zambia e il settore meridionale della Repubblica Democratica del Congo. Secondo gli esperti, la causa scatenante è legata in parte alle pratiche agricole e zootecniche ancestrali per cui contadini e pastori bruciano tradizionalmente la vegetazione per ripulire e fertilizzare savana e foreste. Se a queste tecniche si associano i disastri ambientali e soprattutto i lunghi periodi di siccità sempre più frequenti, lo scenario complessivo è oltremodo inquietante. Infatti, le terre arse nel continente africano rappresentano quasi il 70 per cento dell’intero scacchiere andato a fuoco nel mondo.

Un altro fenomeno che non andrebbe sottovalutato è la deforestazione della fascia tropicale per mano di aziende straniere: una progressiva soppressione delle aree boschive in modo da poterne sfruttare il legno per scopi industriali. È sempre più evidente che l’ecosistema forestale è strategico per la regolamentazione e la stabilizzazione del clima globale. Ad esempio, quello del grande fiume Congo svolge un ruolo chiave nella fornitura dei beni e dei servizi ambientali, nella regolazione e stabilizzazione del clima globale e nella promozione dello sviluppo socio-economico del suo vasto bacino idrografico. Un altro fattore della crisi ecologica africana riguarda la mancanza d’acqua e in particolare le varie forme di contaminazione di quella potabile. Questa fenomenologia sta acuendo già da diverso tempo le tensioni e le rivalità tra i governi locali per il controllo dell’oro blu, come nel caso del fiume Nilo. Allo stesso modo vi è il crescente problema della gestione dei rifiuti, in particolare quelli tossici (come la diossina), o semplicemente delle grandi quantità dei rifiuti non biodegradabili. Discariche e baraccopoli appaiono come una sorta di binomio, simbolo plastico delle contraddizioni di molte città africane dove non c’è slum senza che a fianco vi sia una montagna di rifiuti. Ad esempio, di fronte alla baraccopoli di Korogocho, alla periferia di Nairobi (Kenya) svetta la collina del Mukuru, che raccoglie ogni giorno circa duemila tonnellate di rifiuti: una micidiale mescolanza di rifiuti industriali, urbani e persino ospedalieri che genera livelli di inquinamento elevatissimi, più volte comprovati da ricerche di organizzazioni internazionali come Unep, il Programma Onu per l’ambiente.

Di converso è bene segnalare l’impegno del governo ruandese che negli ultimi anni ha adottato misure per garantire uno sviluppo nazionale in armonia con la tutela dell’ambiente. Le autorità di Kigali hanno bandito su tutto il territorio nazionale l’uso e la produzione di sacchetti di plastica. Non solo: per ridurre le emissioni di carbonio e promuovere un’economia resistente ai cambiamenti climatici entro il 2050, il Rwanda ha istituito il Fondo verde, un fondo di investimento innovativo, il più grande del suo genere in Africa. Molto interessante, a livello ecclesiale, è l’impegno della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un Paese definito un vero e proprio “scandalo geologico” in conseguenza dello stretto legame che esiste tra i conflitti che hanno insanguinato il Paese e le risorse naturali. Il coinvolgimento della Chiesa congolese è stato così elevato che ha istituito il Cern: il Comitato ad hoc episcopale per le Risorse Naturali, con osservatori disseminati nelle varie diocesi situate nelle aree minerarie.

È comunque sempre più evidente l’urgenza di promuovere un’ecologia integrale — in linea con l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ — intesa come paradigma concettuale e come percorso spirituale, non solo per l’Africa, ma per l’intero consesso delle nazioni. Ecco che allora s’impone l’esigenza di una stagione protesa all’affermazione di una consapevolezza globale. Un po’ tutti dovrebbero rammentare che durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti attaccarono il Giappone utilizzando l’uranio del Shinkolobwe nel Katanga congolese, mentre oggi le grandi potenze, nell’era della globalizzazione, fanno incetta del coltan (lega naturale di columbio e tantalio) nel settore orientale dell’ex Zaire. Per non parlare della Repubblica Centrafricana dove uranio, diamanti e legname pregiato rappresentano un ghiotto business per le multinazionali d’ogni genere. E cosa dire del petrolio sudanese, fattore altamente destabilizzante nelle vicende storico-politiche, commerciali e belliche dei due Sudan?

Occorre comunque rilevare che nelle religioni tradizionali africane, in cui il rispetto verso la Terra Madre anima i comportamenti e gli atteggiamenti verso la natura, le Chiese africane hanno la grande responsabilità di promuovere e ricondurre, anche attraverso l’inculturazione, il tema dell’integrità del Creato nel contesto dell’annuncio del Regno di Dio. D’altronde è lo stesso Papa Francesco che nella Laudato si’ spiega come «i sacramenti sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale». In particolare, l’Eucaristia che «unisce cielo e terra» e «ci orienta ad essere custodi di tutto il Creato».