LA SFIDA DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA: SÌ AL PROTAGONISMO DELLE REGIONI, NO ALLA DIVISIONE DEL PAESE.

“Il nuovo Pd è chiamato ad assumere nel Congresso – questo il giudizio dell’autore – una netta e chiara difesa della Costituzione, favorendo il processo di espansione dell’autonomia regionale in un quadro di accresciuta consapevolezza che il divario tra Nord e Sud del paese non può essere ulteriormente tollerato”.

 

Il tema della cosiddetta autonomia differenziata, dopo la presentazione della bozza Calderoli, è al centro del dibattito politico soprattutto nel mezzogiorno ove si teme che l’approvazione del testo possa risolversi in una sorta di secessione dei ricchi. A parere di molti, se approvato nella formulazione proposta, il testo accentuerebbe le disuguaglianze territoriali introducendo una sorta di ius domicilii che favorirebbe i cittadini residenti nelle regioni più avanzate sotto il profilo economico-sociale.

La ferma presa di posizione da parte di alcuni esponenti politici del sud rischia di far scivolare il confronto su un terreno ideologico cui ricorre di frequente una classe dirigente meridionale che non accetta di misurarsi sul terreno della responsabilità e dell’autonomia e che, molto spesso, è vittima di una sorta di “retorica dei divari”. La posizione del Pd a taluni è apparsa incerta anche perché il partito è costretto a misurarsi, da una parte, con le spinte autonomistiche che provengono soprattutto da alcune regioni centro-settentrionali e, dall’altra, con la difesa radicale ed intransigente dell’esistente da parte di larghi settori del partito meridionale. Ma se il nuovo Pd intende continuare ad essere, pur fra le tante contraddizioni del passato, un partito nazionale che valorizzi le istanze e le diversità territoriali non può non assumere su questo terreno una posizione unitaria che sappia riaffermare l’esigenza dell’unità del Paese nel quadro di una rinnovata autonomia regionale.

Il centro sinistra, con la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, ha realizzato il quadro costituzionale entro il quale rafforzare le autonomie regionali predisponendo appropriati strumenti perequativi. Questa importante innovazione costituzionale non è stata però sufficientemente valorizzata ed apprezzata perché i detrattori della riforma hanno enfatizzato le parti della modifica che hanno prodotto inevitabili conflitti di attribuzione Stato-Regioni dinanzi alla Corte Costituzionale per le materie di competenza “concorrente” oltre che per un quadro di livelli di competenze “dai confini incerti”.

Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, se da un lato con l’art. 116 terzo comma si prevede la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, dall’altro la stessa riforma ha introdotto nella nostra Costituzione la garanzia della tutela dei diritti civili e sociali per tutti i cittadini. Con l’art. 117 si stabilisce, infatti, che lo Stato ha legislazione esclusiva nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. La determinazione dei livelli essenziali è, dunque, una questione istituzionale di primaria importanza ed è una partita cruciale che è rimasta purtroppo sostanzialmente inattuata.

La concreta definizione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni prescinde dal processo di rafforzamento delle autonomie regionali, ma si configura come un autonomo dettato costituzionale che non può essere ulteriormente disatteso. Sul punto la Corte Costituzionale è stata estremamente chiara nel valutare “negativamente il perdurante ritardo delle Stato nel definire i Lep, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale , nonché il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivi tali diritti” (Sent. 220 del 2021). Ed ancora la Corte, nella stessa sentenza, ha sostenuto che “l’adempimento di questo dovere dello Stato appare, peraltro, particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), approvato con il decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59”. Così concludendo: “In definitiva, il ritardo nella definizione dei LEP rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali “

La bozza Calderoli, oggetto del confronto con le Regioni, è un documento che presenta molte ambiguità ed offre spunti per una polemica incentrata sulla violazione di alcuni principi costituzionali. Di recente, il prof. Sandro Staiano, noto costituzionalista, utilizzando un’incisiva definizione del prof. Guarino, ha definito le intese frutto della Bozza Calderoli “Sarchiaponi giuridici” evidenziandone, in particolare, il potere dissolutivo per il Paese. Sul piano generale si osserva che, nella proposta, il ruolo del Parlamento sarebbe enormemente sacrificato non potendo incidere sui contenuti dell’intesa fra lo Stato e le Regioni. Ma, le perplessità maggiori sorgono quando si esaminano le connessioni tra l’entrata in vigore delle intese e la definizione dei livelli essenziali. La bozza prefigura una doppia corsia per il trasferimento delle funzioni e la definizione dei livelli delle prestazioni: in tal modo si cristallizza il finanziamento attraverso il principio della cosiddetta “spesa storica” che penalizza pesantemente il mezzogiorno.

Bisogna, però, intendersi sul significato dei LEP: se si tratta di una pura ed astratta determinizione dei livelli delle prestazioni oppure se si tratta di una concreta garanzia per assicurare la completa erogazione dei servizi fondamentali relativi alle materie da trasferire. La pregiudiziale non consiste nella definizione dei LEP ma nella loro concreta attuazione. Il Pd, se vuole essere davvero un partito nazionale, non può rifugiarsi dietro ambiguità lessicali, ma deve porre in concreto il problema dell’attuazione dell’art. 117 della Costituzione e chiedersi perché la previsione costituzionale sia rimasta per molti anni colpevolmente inattuata.

Non sfugge a nessuno che l’attuazione del principio non è a costo zero, ma comporta il trasferimento di risorse alle Regioni sotto “la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale”, come sancisce la Corte. Siccome è impensabile che possano essere sottratte somme alle Regioni sopra la “soglia”, è evidente che l’attuazione dell’art. 117 comporta un aumento, per ora non quantificabile, della spesa pubblica. Se i ritmi di crescita del Paese sono quelli ipotizzati non c’è da sperare in un’attribuzione di fondi per superare il divario fra Nord e Sud cristallizato, per queste tematiche, dalla spesa storica. Ma c’è di più. Non sempre al trasferimento delle funzioni si accompagnano corrispondenti riduzioni di spesa. Nel 2009, quando era al centro del dibattito politico l’attuazione del federalismo fiscale, poi sostanzialmente naufragato per una ri-centralizzazione della politica delle entrate a seguito delle crisi economiche, il Ministro Tremonti non mancò di sottolineare che per talune funzioni trasferite, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, si era registrato un significativo aumento della spesa pubblica. Nè si può sostenere polemicamente che l’invadenza statale attraverso la competenza esclusiva ex art. 117 sia lesiva dell’autonomia regionale.

Sul punto, la posizione della Corte Costituzionale è nettissima. Con la sentenza n. 88 del 2003 si afferma, infatti: “l’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento “per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto”. Sulle materie da trasferire il discorso è ancora più delicato in quanto le soluzioni che si adotteranno (ad esempio la scuola) avranno incidenza sulla reale unità del Paese che non può essere certamente tutelata dall’introduzione del Presidenzialismo a fronte della disarticolazione dei livelli istituzionali e delle diversificazioni territoriali.

Le questioni politiche sul tappeto sono, dunque, complesse e delicate e gli interessi da comporre sono abbastanza diversificati e confliggenti. In questo contesto che richiede un pensiero politico forte che non si alimenti di forzature ideologiche, il nuovo Pd è chiamato ad assumere nel Congresso una netta e chiara difesa della Costituzione, favorendo il processo di espansione dell’autonomia regionale in un quadro di accresciuta consapevolezza che il divario tra Nord e Sud del paese non può essere ulteriormente tollerato. Sul piano della garanzia dei diritti fondamentali non c’è spazio per proposte vuote e slogan che, fra l’altro, vivono lo spazio di un mattino. Ed infine, nel prossimo Congresso il tema dell’ineludibile rafforzamento dell’autonomia regionale dovrà sollecitare una riflessione critica sull’esperienza regionalistica che abbiamo vissuto, soprattutto al Sud.