La decisione di Matteo Renzi di lasciare il PD per dare vita ad una nuova esperienza politica – comunque la si giudichi –  non va letta con gli occhiali del passato, né con troppa indulgenza in ordine a dietrologie di breve momento.

Non è una “scissione” di tipo tradizionale, maturata cioè in base ad un dissidio politico o programmatico, come più volte accaduto nella vita dei partiti. E neppure, credo, una semplice mossa legata alla furbizia, pur notoria, del personaggio.

Appare piuttosto come il nuovo capitolo di una crisi strutturale: quella del concetto stesso di “partito” e delle categorie tradizionali della rappresentanza e dell’appartenenza. Non è affatto il tentativo di occupare uno spazio “al centro”, sul presupposto che il PD starebbe andando troppo “a sinistra”. Men che meno punta a rilanciare in forma autonoma una delle culture politiche che i fondatori del PD avevano ritenuto di poter rappresentare: quella del Popolarismo di ispirazione cattolico democratica.

Il gioco pare totalmente altro.

Se il PD era nato con l’intenzione di “unire” diverse culture politiche del novecento, la nuova creazione di Renzi sembra decisamente partire dal presupposto del loro definitivo “superamento”. Questa mi pare essere la natura prevalente di “Italia Viva”, al di là di ogni altra pur verosimile interpretazione contingente. C’è in essa un elemento di fondatezza: la crisi dei partiti tradizionali è evidente (e non da oggi).

Il tema è però: quale sbocco pensiamo che questa crisi debba e possa avere? Il definitivo superamento delle culture politiche, vecchie, nuove o inedite che esse siano? L’appello alle “energie vitali” di un Paese può essere il cemento di un progetto di governo della società, oppure ne deve costituire una sorta di premessa, importante ma non “fondativa”? E la sfida al “populismo cattivo” può essere giocata (e vinta) mettendo in campo una sorta di “populismo buono”?

Domande destinate a rimanere aperte, credo, ancora a lungo. La fase di riorganizzazione della politica e della vita democratica pare solo agli inizi, con tutto il suo prevedibile carico di contraddizioni, incertezze e opportunità.

Essa si può vivere in molti modi. E ciò vale anche per la nostra piccola comunità di Popolari impenitenti ma non semplicemente nostalgici. Si può ricercare una traiettoria di “accasamenti” (anche apparentemente accattivanti e magari anche plausibili), oppure si può provare a vivere questa fase con atteggiamento di curiosa attenzione a tutti i processi in atto ed ai loro sviluppi, ma con l’ambizione (e l’ardire) di chi prova comunque ad essere “soggetto politico collettivo”: con un riferimento ideale e culturale dichiarato, un pensiero politico autonomo, una presenza organizzata, seppur in modo radicalmente nuovo. Senza velleità ma anche senza rinunce. E con una consapevolezza, appunto: siamo solo agli inizi di una trasformazione radicale della vita politica, che non può essere vissuta con attendismo passivo ma neppure con ansie da prestazione immediata.

Personalmente propendo per la seconda strada, benché tutta in salita. Anche per questo, ho molto apprezzato la provocazione di Lucio D’Ubaldo a proposito del PPI. Immagino le difficoltà di vario genere, temo quasi insormontabili. Tuttavia, se potessero prevalere la logica della “Politica” e la lungimirante capacità di leggere i “segni dei tempi”, quella sarebbe la strada maestra.